La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

lunedì 29 dicembre 2014

La vita è forma e si genera vivendo

da il manifesto

La vita è forma e si genera vivendo

Filosofia. Da vent’anni Giorgio Agamben ha esibito, e poi sciolto, le relazioni fondamentali dell’ontologia politica. Qui, dove vita e forma, zoè e bios, essere e modi d’essere sono tutt’uno, l’opera coincide con l’inoperosità
Chiu­dendo nel 2011 Altis­sima povertà (il volume IV, 1 della grande opera Homo sacer), Gior­gio Agam­ben evi­den­ziava la gran­dezza e i limiti della regola fran­ce­scana: una forma di esi­stenza che situan­dosi fuori dal diritto, rifiu­tando la pro­prietà in nome dell’uso, defi­niva tut­ta­via l’uso ancora rispetto al diritto, in maniera uni­ca­mente nega­tiva. Era infatti man­cata al fran­ce­sca­ne­simo «una defi­ni­zione dell’uso in se stesso», che veniva infine con­ce­pito dai suoi difen­sori come una serie di atti di rinun­cia. Agam­ben si con­ge­dava dun­que dal let­tore lasciando aperta la duplice domanda: «Come potrebbe dav­vero un uso tra­dursi in un ethos e in una forma di vita? E quale onto­lo­gia e quale etica cor­ri­spon­de­ranno a una vita che, nell’uso, si costi­tui­sce come inse­pa­ra­bile dalla sua forma?».
L’altro libro del 2011, Opus dei (Homo sacer, II, 5), un’indagine archeo­lo­gica del para­digma ope­ra­tivo, dell’ufficio e (nella loro intima con­nes­sione) della volontà e del comando – ossia di quell’apparato con­cet­tuale che da Ari­sto­tele a Kant ha infor­mato l’intera cul­tura occi­den­tale – accen­nava, nelle bat­tute finali, al pros­simo oriz­zonte di ricerca: «Il pro­blema della filo­so­fia che viene è quello di pen­sare un’ontologia al di là dell’operatività e del comando e un’etica e una poli­tica del tutto libe­rate dai con­cetti di dovere e volontà». Le indi­ca­zioni dei due libri erano dun­que rigo­ro­sa­mente con­ver­genti: l’ethos final­mente affran­cato dalla volontà e dal dovere coin­cide con la forma di vita, e que­sta non è che uso, può essere cioè con­ce­pita solo ela­bo­rando un’ontologia della non ope­ra­ti­vità. Già in Homo sacer, I (1995), d’altra parte, Agam­ben usava i trat­tini per scri­vere forma-di-vita, nomi­nando così un «essere che è solo la sua nuda esi­stenza, una vita che è la sua forma e resta inse­pa­ra­bile da essa», e che si potrebbe pen­sare al di là della distin­zione ari­sto­te­lica fra potenza e atto, della par­ti­zione clas­sica fra zoè e bios, o del bando sovrano che separa e detiene la nuda vita. La ricerca ven­ten­nale poteva ora giun­gere a com­pi­mento, coin­ci­dere cioè con la «defi­ni­zione dell’uso in se stesso».
L’uso dei corpi. Homo sacer, IV, 2 (Neri Pozza, pp. 366, euro 18,00) risponde alle attese con la forza diri­mente del capo­la­voro. È, que­sto nono e ultimo volume, un libro con cui sarà d’ora in poi neces­sa­rio – anche se non facile – misu­rarsi, non solo per­ché, per ric­chezza, eru­di­zione e chia­rezza spe­cu­la­tiva si impone nel pano­rama filo­so­fico di que­sto tempo, ma per­ché dav­vero dischiude una nuova dimen­sione del pen­siero men­tre resti­tui­sce – con buona pace della «potenza costi­tuente», cioè delle isti­tu­zioni e del governo – tutta la serietà dell’anarchia (intesa in senso filo­so­fico e poli­tico insieme).
Quella vita che è solo la sua nuda esi­stenza, la vita che appunto il diritto esclude e cat­tura, la vita ban­dita e sacra (insa­cri­fi­ca­bile, spie­gava già Agam­ben andando oltre Keré­nyi, nel senso che può essere uccisa senza com­met­tere omi­ci­dio), si pre­senta all’inizio del nuovo lavoro in una frase di Guy Debord: «cette clan­de­sti­nité de la vie pri­vée sur laquelle on ne pos­sède jamais que des docu­ments déri­soi­res». È la vita cor­po­rea, sepa­rata da noi come lo è un clan­de­stino e insieme inse­pa­ra­bile, pro­prio come non si separa da noi colui che «con­di­vide nasco­sta­mente con noi l’esistenza». Certo, rispetto all’ultimo Fou­cault, che aveva pen­sato la sot­tra­zione del corpo, in nome del pia­cere, ai mec­ca­ni­smi di potere della ses­sua­lità, Agam­ben aveva espresso le pro­prie riserve osser­vando che il corpo è per noi «già sem­pre preso in un dispo­si­tivo … già sem­pre corpo bio­po­li­tico e nuda vita».
Ma l’accento batte qui sull’uso, che si tratta di iso­lare, strap­pan­dolo alla sua assi­mi­la­zione all’atto, alla pro­du­zione, all’opera. Ora, un puro uso del corpo era stato con­ce­pito dalla cul­tura clas­sica nella figura e nell’attività dello schiavo che, spiega Agam­ben, non è inter­pre­ta­bile secondo una nozione di lavoro tanto impli­cita e ovvia per noi quanto ignota ai Greci. L’operaio potrà anche essere schia­viz­zato, ma lo schiavo non è un ope­raio. Il suo corpo, diceva Ari­sto­tele, è uno stru­mento, ma non pro­duce come il plet­tro o la spola un’opera sepa­rata dal suo uso; è piut­to­sto uno stru­mento pra­tico, simile cioè a una veste e a un letto, che sol­tanto si usano. Impro­dut­tivo, e pres­so­ché privo di virtù, quest’uomo-suppellettile è così l’escluso dalla vita poli­tica che rende pos­si­bile agli altri di essere liberi, inte­ra­mente poli­tici, vera­mente umani.
Si rico­no­sce lo schema tipico dell’esclusione inclu­dente, o dell’«eccezione» – nel senso che Agam­ben ha dato a que­sto ter­mine. Ma pro­prio per que­sto, secondo un gesto teo­rico anch’esso tipico e com­ple­men­tare, «lo schiavo rap­pre­senta la cat­tura nel diritto di una figura dell’agire umano che ci resta ancora da delibare».
L’indagine si stringe dun­que sul verbo chre­sthai: usare (che infatti non può reg­gere l’accusativo) indica nel suo signi­fi­cato più pro­prio (cioè mediale) non una rela­zione di un sog­getto con un oggetto este­riore ma la rela­zione che si ha con se stessi. La dif­fe­renza da Fou­cault è ora segnata sot­til­mente: è vero infatti che in una lezione famosa del corso del 1982, L’ermeneutica del sog­getto, la nozione pla­to­nica, ma anche stoica, di chre­sis, veniva resti­tuita al suo senso più ampio e vario (com­por­ta­mento, con­te­gno, atti­tu­dine) e inter­pre­tata nel segno della «cura di sé» e del sog­getto: chi ha cura di sé, inse­gnava Fou­cault, si occupa di se stesso come sog­getto della chre­sis, cioè di com­por­ta­menti, atti­tu­dini e così via. Ma se già la chre­sis, secondo la distin­zione acuta di Agam­ben, è un «rap­porto con sé», essa com­porta uno spo­sta­mento essen­ziale al di là della dimen­sione del soggetto.
Non c’è più un sog­getto della chre­sis di cui occu­parsi, ma solo uso, solo rap­porto con sé e nes­sun sé come sog­getto. Qui Agam­ben potrebbe sem­brare vicino a Hei­deg­ger, secondo il quale l’espressione Selbstsorge (cura di sé) – che segna dall’antichità la com­pren­sione pre-ontologica del sog­getto – è solo una tau­to­lo­gia, poi­ché l’Esserci è già sem­pre alle prese con se stesso (Essere e tempo, § 40). Ma mai il suo con­fronto col mae­stro dei semi­nari di Le Thor è stato così cri­tico e ser­rato come in que­sto libro. Pro­prio il modo in cui Hei­deg­ger pri­vi­le­gia la cura e descrive l’uso, assi­mi­lan­dolo all’energeia, dimo­stra secondo Agam­ben che egli non è uscito dalla cor­nice ari­sto­te­lica. «Defi­nire l’uso in sé stesso» signi­fica invece pen­sare un uso della potenza che non è sem­plice pas­sag­gio all’atto. Signi­fica lavo­rare sulle nozioni di hexis, habi­tus, abi­tu­dine, distin­guere, oltre la cop­pia potenza/atto, un «uso abi­tuale»: se Glenn Gould è un pia­ni­sta anche quando non suona, non lo è in quanto «tito­lare o padrone della potenza di suo­nare, che può met­tere o non met­tere in opera», ma per­ché non cessa mai di essere colui che ha l’uso del piano, «vive abi­tual­mente l’uso di sé» come pia­ni­sta. L’uso non è un’attività, ma una forma-di-vita.
Per que­sto la seconda, ric­chis­sima parte del libro, muove nella dire­zione che Hei­deg­ger ha intra­vi­sto senza poter seguire: Agam­ben vi intra­prende dap­prima una accu­rata archeo­lo­gia del «dispo­si­tivo ari­sto­te­lico», onto­lo­gico e insieme lin­gui­stico, che ogni volta isola il sog­getto scin­dendo essenza ed esi­stenza, per adden­trarsi poi nel campo ancora ine­splo­rato dell’«ontologia modale». Se una volta il pen­siero moderno si è spinto fino a que­sto ter­ri­to­rio, è stato nel car­teg­gio tra Leib­niz e Des Bos­ses e con quel con­cetto a cui Leib­niz ha dato il nome («inat­tendu et énig­ma­ti­que» dirà Char­les Blon­del) di vin­cu­lum sub­stan­tiale. Caduto – con l’eccezione note­vole di Maine de Biran – in un cono d’ombra per tutto l’Ottocento, il vin­cu­lum, che per Leib­niz uni­sce la mol­te­pli­cità bru­li­cante delle monadi in una sola sostanza, è stato risco­perto nel 1930 appunto da Blon­del (in chiave anti­kan­tiana), poi dallo sto­rico Alfred Boehm e in tempi più vicini da Gil­les Deleuze, che gli ha affi­dato un ruolo chiave nel pas­sag­gio dall’ontologia clas­sica alla sua «filo­so­fia dell’avere».
L’originale stra­te­gia di Agam­ben punta invece sul ter­mine «esi­genza»: se il vin­colo, come diceva già Leib­niz, esige le monadi, pro­prio l’esigenza dev’essere ora sosti­tuita alla sostanza come con­cetto cen­trale dell’ontologia. L’essere non si appro­pria dei modi d’essere, ma li esige, ossia si dispiega in essi, non è altro che le sue modi­fi­ca­zioni. La vita non è che la sua forma e la forma – secondo la bella espres­sione di Vit­to­rino – si genera vivendo. Tutte le oppo­si­zioni (esistenza/essenza; potenza/atto… ) su cui si era costruita la tra­di­zione meta­fi­sica ven­gono così revo­cate, e con esse anche tutte le par­ti­zioni su cui, con un pro­getto cor­ri­spon­dente, la filo­so­fia poli­tica ha nei secoli inne­scato e nutrito il dispo­si­tivo della sovra­nità (nuda vita/ potere; oikos/ polis; violenza/ ordine; moltitudine/ popolo).
Nella forma-di-vita, nella vita che si forma o genera vivendo, zoè e bios non sono più in una rela­zione oppo­si­tiva, ma «si con­trag­gono l’una sull’altra», entrano in con­tatto. Agam­ben riprende que­sta parola da Gior­gio Colli, e nel suo signi­fi­cato tec­nico: il con­tatto è «un vuoto di rap­pre­sen­ta­zione» (dove rap­pre­sen­ta­zione signi­fica a sua volta, per Colli, «una sem­plice rela­zione»). Ora, Homo sacer, I inse­gnava che la forma pura del rap­porto è il bando sovrano. Giun­gere, nell’uso o nel con­tatto, ad di là della rela­zione, vuol dire per­ciò oltre­pas­sare dav­vero una soglia ontologico-politica, pen­sare insieme l’essere e la poli­tica non più come rap­porto o rappresentanza.
Coe­ren­te­mente, quindi, l’ultima parte della ricerca – che è anche una rica­pi­to­la­zione dell’intero dise­gno di Homo sacer – pro­pone una «Teo­ria della potenza desti­tuente». Che cos’è infatti l’uso come potenza non più subor­di­nata all’atto, ormai sciolta dall’energeia ? Senz’opera, senza pro­du­zione, non lavoro né paresse, è la costante disat­ti­va­zione della mac­china onto­lo­gica, è la potenza che svela, espone e neu­tra­lizza tutte oppo­si­zioni col­la­bo­ranti. E se la filo­so­fia, secondo il motto di Kojève che Agam­ben ama ricor­dare, è quel discorso che par­lando di qual­cosa parla anche del fatto che sta par­lando, desti­tuente è pro­prio que­sta ven­ten­nale ricerca.
Con l’acribia del filo­logo e l’acume del teo­rico, l’autore di Homo sacer non ha fatto che esi­bire e scio­gliere, da vent’anni a que­sta parte, le rela­zioni fon­da­men­tali dell’ontologia poli­tica. E qui, dove vita e forma, zoè e bios, essere e modi d’essere non si distin­guono più, l’opera chia­mata Homo sacer coin­cide con l’inoperosità.
Al di là del sog­getto, e dei prin­cipi del dovere, della volontà, al di là del comando, del bando sovrano o del vin­colo tra potere costi­tuente e potere costi­tuito, lì dove non vi sono più isti­tu­zioni né governi, oltre la bio-politica, si può final­mente nomi­nare la vera anar­chia. Modo o forma-di-vita, que­sta sol­tanto «si libera come con­tatto»: disat­ti­vando il dispo­si­tivo che la trat­tiene, cioè «con la lucida espo­si­zione» della stessa ano­mia o «anar­chia interna al potere».


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.