Nino Di Matteo: Il mio atto d’accusa ai collusi
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La ricostruzione del libro è precisa. Su Totò Riina: la verità è che anche la trattativa con gli uomini dello stato – di cui parlò la prima volta Brusca (1996) – gli sta stretta: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me.” Le esternazioni del boss hanno un obiettivo: “ribadire il ruolo che ha svolto negli ultimi trent’anni e allontanare l’idea che sia stato un pupo nelle mani di forze occulte annidate dentro lo Stato” (p. 8).
Temi delicati, sui quali in Italia si è creato un clima ostile. Lo affermano Claudio Fava e Don Luigi Ciotti, in via Ripetta, a Roma – il 12 maggio – alla presentazione del libro. C’è come un isolamento dei magistrati che si occupano del legame mafia-politica (“Ancora questa trattativa!...”). Ne è consapevole Di Matteo: “subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio sembrava iniziata una vera e propria rivolta contro la mafia, a tutti i livelli”. Ora c’è un riflusso “una sorta di stanchezza e di fastidio nei confronti di quelle indagini che miravano a scoprire in che modo la mafia sia ancora ben presente dentro le stanze del potere.” E’ l’amarezza più grande. (pp. 23-24).
Troppe persone, anche all’interno delle istituzioni - dice Di Matteo - hanno recepito il messaggio lanciato da Berlusconi: quelle indagini dei magistrati di Palermo sono tempo sprecato, uno sperpero di risorse pubbliche. Molti esponenti delle forze di polizia: “tendono a concentrare le loro migliori risorse umane e tecnologiche sui pesci piccoli dell’organizzazione, quelli che è più facile processare senza creare troppi fastidi alla rete delle complicità” (pp. 25-26) Questo accade. E non è una denuncia di poco conto. La rende esplicita Don Ciotti nel suo accorato intervento: “Il problema non è solo l’illegalità, ma la legalità che agisce in modo illegale”. L’attacco non è solo al crimine organizzato, ma a chi dentro le maglie della legge – distorta, vilipesa, manipolata – favorisce la mafia, ne è connivente, la utilizza.
La utilizza è espressione precisa. Ascoltandola, non possiamo non pensare (anche) a quei leader politici che potevano intervenire per bloccare l’ingresso in lista di candidati inquisiti, ma non l’hanno fatto, hanno chiuso un occhio, forse tutti e due, perché, infondo, i voti dei candidati impresentabili fanno comodo. Meglio utilizzarli: mafia, candidati, voti. Poi, però, sempre pronti a partecipare alle cerimonie funebri dei morti ammazzati dalla mafia (da Mattarella a Pio La Torre… a Falcone e Borsellino). Don Ciotti è amareggiato: “troppe lapidi ci sono in Italia, e troppe strade e scuole intestate ai martiri uccisi dalla mafia.” E Claudio Fava: è incredibile che ancora oggi – oggi, non trent’anni fa – molti politici facciano salotto, discutano in società, con chi traffica illegalmente e ordina omicidi.
La lotta alla mafia in realtà viene ostacolata. La si combatte a parole, nei fatti ci si muove in altra direzione. Basti pensare che Nino Di Matteo, uno dei maggiori esperti del legame mafia-politica, è ufficialmente scaduto da suo incarico alla Direzione distrettuale antimafia. Annota Palazzolo: “E’ stato assegnato a un altro gruppo di lavoro in procura. Così, mentre continua a scavare nei segreti dei rapporti fra mafia e potere, deve occuparsi anche di verande abusive e di contravvenzioni al codice della strada. Dove non è arrivata la mafia, per fermarlo, ha colpito certo l’antimafia”.
E’ un punto che meriterebbe tutti i giorni la prima pagina dei giornali. Tutti i giorni. Una campagna martellante. In Italia c’è una norma, secondo cui i pubblici ministeri possono occuparsi solo per dieci anni d’indagini sulla mafia. Tradotto: “Hanno appena il tempo di acquisire competenze, avviare una strategia giudiziaria e coglierne qualche risultato. Poi sono costretti a passare ad altro. Se negli anni Ottanta ci fosse stata questa regola, anche Falcone e Borsellino avrebbero rischiato di occuparsi di verande abusive. La lotta alla mafia deve fare ancora molta strada” (p.17). E’ una vergogna che quella norma sia ancora lì, mentre Renzi scrive i suoi tweet ipocriti (e complici, finché la norma resta ancora in vigore).
Un passaggio importante del testo di Di Matteo è strutturato intorno a questa catena deduttiva: “Torniamo a domandarci: chi erano e cosa rappresentavano le vittime dei delitti eccellenti? Erano esponenti politici come il presidente della Sicilia Piersanti Mattarella, che voleva mettere in discussione i collaudati meccanismi di spartizione politico-mafiosa degli appalti”. Erano grandi uomini come Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ninì Cassarà... L’assassinio di queste persone “ha avuto un unico comune denominatore: la rimozione chirurgica di quelle anomalie che rischiavano di mettere in discussione l’operatività del sistema.” Poi arrivarono le stragi del 1992-1993. Con lo stesso obiettivo: eliminare chi metteva in pericolo il sistema. Dimenticare ciò, come fanno troppi politici, significa “sostenere la lotta alla mafia solo a parole” (p. 30).
Si è fatto un gran discutere sulle accuse mosse agli uomini delle istituzioni. In realtà Di Matteo indica fatti precisi: “la condotta che contestiamo ai soggetti istituzionali e politici – dice – è quella di aver assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo nel prospettare i desiderata dell’organizzazione mafiosa, così concorrendo al vero e proprio ricatto che i boss stavano portando avanti nei confronti delle istituzioni” (p. 109). Parole inequivocabili. E infatti, alcune pagine dopo: “Cosa nostra non verrà sconfitta in modo definitivo fino a quando ci sarà anche un solo mafioso che trova in un esponente del potere la disponibilità al compromesso” (p. 114).
Quanti compromessi ci sono, oggi, alla vigilia delle elezioni regionali, è inutile dire. E tuttavia è proprio questo il punto. Si continua a pensare che i voti non puzzino. E invece il tanfo si sente. Eccome! Soprattutto quello dell’antimafia di facciata. Don Ciotti dice frasi definitive: “Ci hanno rubato le parole. Sono ladri di parole. ‘Antimafia’, per esempio, è parola logora, abusata. Cambiamola. Cambiamola per favore! – grida –, la usano persone che non lottano davvero la criminalità, ma se ne servono come pennacchio.” Applauso forte e commosso della sala. E’ l’immagine che porterò con me, per tanto tempo. Ci penso ancora mentre esco dal salone di via Ripetta. Uomini come Di Matteo e Don Ciotti fanno sperare che l’Italia possa farcela: se riprende a combattere, se non perde la capacità di indignarsi. A chi ha perso l’appuntamento – davvero interessante – della presentazione di Collusi, non resta che leggere il libro per ritrovare un clima di lotta civile e ricerca della verità. Di Matteo è stanco? Impossibile non esserlo. Ma: “Io resto al mio posto. Non mi rassegno a questo stato di cose” (p. 178). Anche per questo ha la stima e la fiducia di tutte le persone oneste.
Post scriptum. Leggo che il senatore Macaluso ha sdoganato la parola “cazzo” per recensire Collusi, che dichiara di non aver nemmeno sfogliato: c’era bisogno che ce lo venisse a raccontare Di Matteo il rapporto mafia-politica. Osservo che il magistrato Di Matteo, il legame mafia-politica non si limita a raccontarlo: lo indaga, lo contrasta, lo combatte, ogni giorno, rischiando la vita. Lì, in trincea. Con l’angoscia di lasciare orfani i figli. Ci pensino i sacerdoti della Verità. Senza fretta: con comodo. Mentre a casa, in pantofole, bevono il the
fonte MicroMega
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