La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

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Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

sabato 23 maggio 2015

TRAPPOLA IMMORTALE

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TRAPPOLA IMMORTALE (di Roselina Salemi)

L’utopia della perenne giovinezza si sta oggi trasformando in incubo: la prospettiva di una vecchiaia infinita. Col suo impatto devastante su sistemi sociali e rapporti fra le generazioni.
Nel 1986 i Queen cantavano “Who wants to live forever” (Chi vuol vivere per sempre?), sottintendendo che l’immortalità potrebbe avere controindicazioni. Dai replicanti di “Blade Runner”, che bruciavano la loro esistenza in 4 anni, alla teoria visionaria di “Selfless”, film di Tarsem Singh (esce negli Usa il 31 luglio) dove un Ben Kingsley malato terminale si trasferisce nel corpo di Ryan Reynolds, la fantascienza ha sempre tentato risposte alla domanda che i filosofi hanno eluso e le religioni spostato indefinitamente: quanto possiamo vivere? Il più possibile. Con qualsiasi mezzo: nanochirurgia, protesi, trapianti, pezzi di ricambio, pillole miracolose. Se serve, anche un patto con il diavolo. Fuori dalla fiction, il tema della lunga vita è affascinante e controverso. Numeri? 100 anni sono quasi garantiti, i bambini di oggi potrebbero arrivare a 142 (cover di “Time” in febbraio). Statistiche alla mano, la vita media nei paesi ricchi cresce di 3 mesi l’anno. Rudi Westendorp, medico e ricercatore olandese dell’Università di Leida, autore di “Come invecchiare senza diventare vecchi” (Ponte alle Grazie), precisa: «Nell’arco di un secolo l’aspettativa è salita da 40 a 80 anni e la probabilità di raggiungere i 65 è passata dal 30 al 90%. Chi nasce adesso arriverà ai 135». Il confine si sposta, alimentato da un’industria che scruta nella profondità delle cellule e trova modi per prolungare oltre le normali leggi biologiche la monotona esistenza di topi da laboratorio. L’onnipotenza scientifica sfiora la metafisica.
Nel saggio “Immortality”, il filosofo Stephen Cave si concentra sulla nostra ossessione per l’immortalità e ne individua quattro forme: sconfitta della morte (possibile), resurrezione (chissà), eternità dell’anima (non ci crede) e quella delle opere (l’unica vera). Arriva alla conclusione che l’immortalità fisica è inutile. Conta ciò che ci lasciamo dietro. Invita a non temere la fine. «Come un libro è delimitato dalle sue copertine, le nostre vite lo sono da nascita e morte. Un libro, anche da chiuso, può comprendere paesaggi lontani e avventure fantastiche: dovrebbe essere così anche per noi uomini. Immaginate il libro della vostra vita: non abbiate paura di ciò che è fuori dalle copertine e non preoccupatevi di quanto è lungo. L’unica cosa che conta è farne una bella storia».
Mentre riflettiamo, il futuro è già presente. «Mio padre, nato nel 1919, ha vissuto 74 anni. Mia madre ne ha 95 anni. Io potrei forse arrivare a 120?», si chiede lo storico Giordano Bruno Guerri: «Come sarà festeggiare non un genitore, ma un figlio centenario? Chi pagherà queste pensioni?». È il primo paradosso della longevità: le società che la creano potrebbero collassare sotto il suo peso. Teoria che fa molto discutere.
I PUNTI DI VISTA
Ezekiel J. Emanuel, 58 anni, oncologo e direttore del Dipartimento di Bioetica Clinica presso l’Istituto Superiore di Sanità degli Stati Uniti, sostiene che l’età giusta per morire è 75 anni. Lo scienziato e divulgatore Joon Yun, presidente di Palo Alto Investors, dice invece 150 (il doppio). Ma forse hanno ragione tutti e due.
Emanuel ha esposto la sua tesi sul mensile “The Atlantic”, con un articolo che comincia così: «75. Ecco quanto voglio vivere: 75 anni». Non pensa a suicidio né eutanasia, semplicemente non cercherà di prolungare la sua vita. Quindi: visite mediche ridotte al minimo, rinuncia a vaccini e test, e se si ammalerà di cancro rifiuterà le cure. Il contrario di quanto fa «il mortale americano» (come lo definisce lui) «ossessionato da esercizio fisico, quiz mentali, diete a base di succhi e proteine, integratori e vitamine, tutto per allontanare la fine». Il mortale americano crede nella “compressione della morbilità”, secondo cui si può andare avanti sempre più a lungo e con meno disabilità. Emanuel no: «La medicina non ha rallentato il processo di invecchiamento ma aumentato il tempo che ci vuole per morire». Il risultato è una società che non gli piace, dove la “generazione sandwich” è costretta a prendersi cura dei figli e dei padri. Dopo i 75, sostiene il bioeticista, i genitori possono diventare un grande peso per i familiari, perché sono sempre più dipendenti. E conclude: «Io voglio essere ricordato al mio meglio -attivo, vigoroso, vivace, intelligente, entusiasta, divertente, caldo, amorevole- non curvo e indolente, smemorato e ripetitivo. La vera tragedia è lasciare a figli e nipoti ricordi non contrassegnati dalla nostra gioia di vivere, ma dalla nostra debolezza».
Non è il solo a pensarla così. Se negli Usa la “crionica” cresce del 15% (e ogni anno 800 persone si fanno in sostanza congelare senza sapere se e come verranno risvegliate), in Olanda molti grandi anziani si fanno tatuare sul petto la scritta “Non rianimatemi”: perché lì la rianimazione è routine, ma soltanto il 15% degli anziani sopravvive, e non bene. La questione è stata oggetto di dibattito. Tentare di prolungare la vita sempre e comunque è altruismo o accanimento terapeutico? Che fare quando la volontà del malato non è stata espressa in maniera esplicita? Sulla validità giuridica del tatuaggio non c’è unanimità, ma in generale si presume che tutti o quasi vogliano essere curati, rianimati, resuscitati. Concetto ben riassunto da Woody Allen: «Non voglio raggiungere l’immortalità attraverso le mie opere. Non mi interessa vivere nel cuore degli americani: preferisco vivere nel mio appartamento».
Per questo fa ogni volta scalpore l’annuncio rituale: “Trovato l’elisir di lunga vita”. L’ultimo, per ora, ha permesso alla cavia Mouse UT2598 di vivere più e meglio di qualsiasi altro topo: anziché 2-3 anni è arrivato a 4, grazie alla rapamicina. Si studiano interventi genetici, staminali, trapianti, pillole; la biologia lavora sul Dna e la sua replicazione, sul metabolismo delle cellule; il nuovo mantra è la “restrizione calorica”: un taglio dell’alimentazione del 30% circa costringerebbe le cellule a riorganizzarsi attivando geni che riducono il metabolismo. E la durata della vita della cellula si allunga del 30-40%.
Per evitare di vivere più a lungo ma più affamati, c’è chi lavora a pillole capaci di “ingannare” le cellule e mimare la restrizione calorica. Altre soluzioni: la Metformina (farmaco usato per curare il diabete, pare assodato influenzi i processi metabolici legati all’invecchiamento), il Gdf11 (proteina che in laboratorio ha “ringiovanito” il sangue dei topi), persino organi nuovi stampati in 3D.
Nella quotidianità esempi di longevità invidiabile ce ne sono già, e sono dovuti a un misto di predisposizione genetica, prevenzione, buone abitudini. Lo chef Gualtiero Marchesi, 85 anni, si autodefinisce «diversamente giovane» e sei mesi fa ha cominciato a lanciarsi con il paracadute assieme all’ex Mago Zurlì Cino Tortorella, 88 a giugno. «Mi sono divertito da pazzi, tra un po’ lo rifaccio», racconta: «Se penso a una vita lunghissima mi dico, devo trovare il modo di non annoiarmi. L’eternità mi stuferebbe. Io, che ho sempre amato l’arte, ora sto studiando gioielli a tema cucina, realizzati con riso e oro, come uno dei miei piatti». Gillo Dorfles,105 anni lo scorso 12 aprile, abita da solo, scrive a macchina, suona il piano. Il suo motto è «Vivere sempre». Un buon esempio per i 18 mila centenari italiani, destinati ad aumentare. Siamo tra le nazioni più longeve del mondo (ci studiano), possiamo ben rappresentare il problema: non sarà necessario rivedere i parametri di una società che si regge sul presupposto di una durata della vita in cui i 100 anni sono eccezione, non regola? La longevità estrema fa saltare tutto, compreso il concetto di eredità, perché si consumano tutti i risparmi e ai figli non si lascia niente. Tra quarant’anni in Italia ci sarà un pensionato per ogni lavoratore, previdenza e sanità saranno insostenibili. Per affrontare una società come questa servono scienziati, ma anche filosofi.
IL TEMPO
Stefan Klein, tra i più importanti saggisti scientifici tedeschi (ben noto il suo “La formula della felicità”) ha appena pubblicato da Bollati Boringhieri “Il tempo. La sostanza di cui è fatta la vita. Istruzioni per l’uso”, in cui si chiede se longevità e felicità possono andare d’accordo. La risposta è sì, a patto di ripensare occupazione, studio e scuola. «Persone di 65 anni in perfetta salute fisica e mentale non dovrebbero smettere di lavorare solo perché hanno 65 anni. Dovremmo diventare più flessibili, lasciare ai singoli individui la scelta. Un recente studio sociologico ha mostrato che uno dei fattori determinanti della felicità è lavorare quanto desideri. È assurdo imporre ai giovani tra i 20 e i 30 anni (soprattutto donne) di crescere i bambini e contemporaneamente farsi una carriera. Se possiamo essere produttivi oltre i 60, perché le carriere non possono cominciare a 35 o anche 40?». Sconvolgente ma possibile, se accettiamo l’idea di creatività tardiva (esiste: John Shepherd Barren ha inventato il bancomat a 84 anni). Possibile anche sottrarsi all’angoscia del tempo che fugge, per Klein: «Quando si è giovani si tende a immagazzinare tanti ricordi», spiega: «pensiamo a un bambino e al suo primo Natale: tra regali, luci e feste quel tempo gli sembrerà infinito. Da adulto, hai sperimentato le stesse cose tante volte. Per me invece niente del periodo natalizio è nuovo, quindi non accumulo ricordi. Ecco perché il tempo passa più veloce. Ma è possibile “ingannare” questo meccanismo facendo qualcosa di diverso dal solito. Viaggiando o imparando percepiremo più lentamente il trascorrere del tempo. Immagazzineremo ricordi come quando eravamo piccoli».
Roberto Vacca, ingegnere, 87 anni, autore di un manuale ad uso della quarta e quinta età, “Come imparare una cosa al giorno e non invecchiare mai” (Mondadori) lo fa già: legge, traduce poesie dal tedesco, disegna, scrive sonetti ispirati a Giuseppe Gioacchino Belli spacciandoli per risultato di sedute spiritiche. A 68 anni si è sposato e ha avuto un figlio. «L’ultimo decennio (da 76 a 86 anni) è stato denso di eventi», racconta: «Ho lavorato, studiato e capito parecchie cose nuove. Ho calcolato la durata della mia vita seguendo i lavori del fisico Cesare Marchetti, che analizza la produzione di scienziati, registi, atleti, artisti e ne deduce una tesi: la curva che rappresenta, in funzione del tempo, la produzione di un creativo (quadri, sinfonie, libri) è una S che all’inizio cresce lentamente, poi va veloce, in seguito rallenta e la pendenza cala fino a raggiungere un valore costante, detto asintoto. L’artista si esaurisce quando la somma delle sue opere ha raggiunto circa il 95% dell’asintoto finale: allora muore. Il caso più noto e triste è quello di Mozart: raggiunse il 95% del suo massimo teorico di 650 composizioni a 37 anni e puntualmente morì. Veniamo a me: fino al 2014 ho pubblicato 45 libri; applicando un modello matematico, ho ottenuto una curva che mira a un valore finale di 51 libri verso il 2050. Il 95% di 51 è 48. La curva mostra che dovrei pubblicarne altri 3: il quarantottesimo nel 2022 a 95 anni, presunta data della mia morte. Plausibile, e mi va bene così».
Vacca invoca, al posto della rottamazione, l’alleanza generazionale: senior creativi, indipendenti e in buona salute, che non siano un peso ma una risorsa. Caratteristiche? È gente che mangia poco (a 80 anni ha lo stesso peso dei 18) e mantiene intatta la curiosità: «Quando hai imparato a fare una cosa, comincia a farne una che non sai. La parte più interessante di te è la tua mente. Se mandi idee e parole interessanti in giro per il mondo, queste sono te. E, finché girano, sei immortale. Mentre non frega niente a nessuno che io resti in vita fino a cent’anni e che racconti soltanto quel che mangio o mi lamenti dei miei dolori».
Bisognerebbe riconoscere «la bellezza della finitezza», come sostiene Stephen Cave in “Immortality”. Ma non è facile. Ne “Il Signore degli Anelli” di Tolkien, Aragorn sconfigge Sauron e diventa re intorno ai 70. Ha sangue elfico: la sua vita è 3 volte più lunga di quella di un uomo. Potrà restituirla quando si sentirà pronto, gli basterà chiudere gli occhi. Dopo 120 anni di regno (ne ha 190) dice alla moglie Arwen, figlia del re degli Elfi, quasi immortale, che è ora di lasciare. Lei gli chiede di restare ancora. E lui: «Rifletti, mia adorata, e domandati se preferiresti vedermi appassire e cadere dal mio alto trono, impotente e irragionevole. Se non vado adesso, sarò presto costretto a partire per forza». Mentre Arwen gli prende la mano e la bacia, lui si addormenta. Fuori dal mito, noi rifiutiamo di chiudere gli occhi.

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