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martedì 23 agosto 2011

Tra i pini e il vento di Caprera



Tra i pini e il vento di Caprera


L'isola di Garibaldi ha la forma di un geco e tutte le sfumature del verde
Antonella Anedda

Tra i pini e il vento di Caprera


Chi cammina in un’isola può solo illudersi di andare verso qualcosa. Le parole Est e Ovest su cui Thoreau ha costruito il suo capolavoro sono solo desideri dello sguardo, struggimento per la distanza. I venti - e a questo proposito non c’è testo più bello di The Mirror of the sea di Conrad - contano più delle strade. Il maestrale che ghiaccia, il libeccio che strema, il ponente che da occidente soffia senza freni. L’avviso ai naviganti parla nella radio lentamente e annuncia la forza del mare. La parola bufera non ha nulla di letterario ma è reale. La Torre di Guardia issa una bandiera, la sirena suona a lungo lottando con le raffiche e il vento che ulula davvero incanalandosi tra le vie.
Chi cammina in un’isola non progredisce ma sale o sprofonda. Scende fino all’acqua o si arrampica su una roccia. Per dimenticare la sua prigionia, la beffa del non andare, bisogna trasformare i verbi e sostituire camminare con nuotare. Anche nuotando in fondo i piedi si muovono, ma - abbastanza in fretta - non toccano più se non l’acqua. Ci si immerge, la terra sfugge, il corpo avanza orizzontale, servito dalle braccia, ritmato dalla testa che si muove.
Quando riaffiora dal mare, il camminatore dell’isola resta, come dicono qui a La Maddalena, «con il piede marino». Vacilla leggermente e risale in superficie. La stessa natura dell’arcipelago, le isole sparse apparentemente vicine che diventano difficili da raggiungere se si alza il vento, aumenta la sensazione di precarietà. Di fronte alla mia finestra l’isolotto di santo Stefano appartenuto un tempo ai miei bisnonni che provarono a trasformare la poca terra in una fattoria moderna, ha tenuto per anni la precarietà esplosiva di una base Usa. Secondo una indagine francese, anzi corsa, il mare avrebbe inghiottito il materiale radioattivo di un sottomarino americano, e oggi il giornale riporta la notizia di un vero e proprio arsenale tra razzi e mitra capace di armare un esercito, in parte nascosto nelle gallerie di Santo Stefano, in parte, sembra, trasportato clandestinamente, nei traghetti di linea.
L’instabilità dell’acqua, il dondolio delle onde modifica il passo anche a me, oggi a Caprera, l’isola più orientale dell’arcipelago, a forma di geco, disabitata, coperta di pini, solo recentemente asfaltata. Si raggiunge attraverso un ponte che scavalca acqua basse quasi lacustri e basta a sigillare il passaggio dal mondo alla quiete. In questa isola di capre, ultimo rifugio di Garibaldi, primo rifugio di fuoriusciti corsi, c’è sempre la possibilità di trovare uno spazio silenzioso dove guardare licheni che avrebbero fatto la gioia del poeta Camillo Sbarbaro. I colori dal grigio all’arancio variano a seconda dei ciuffi di piante che si piegano su di loro. Tutte le tonalità del verde sembrano radunarsi in quello spazio scosceso, dal verde polvere degli olivastri, al verde setola delle tamerici, dal verde-giada dei pini giovani al verde-legno delle pigne. Proprio poco prima di arrivare dove è seppellita Marsala, la cavalla di Garibaldi, non distante dalla Casa Bianca dove è morto guardando dal suo letto la Corsica e oltre l’isola, Nizza, c’è una radura che conoscono in pochi, miracolosamente risparmiata dagli umani. È un anfiteatro di rocce, alcune scavate dal vento, i tafoni che prendono spesso forme di bestie fantastiche a metà tra orsi e draghi, altre piatte circondate da mirto e lentisco. In terra tra gli aghi di pino gli escrementi degli animali si mischiano alle loro ossa, a qualche dente, a ciuffi di spine, a pelli appiattite e consumate che solo dopo capiamo non erano foglie.
Mi fermo solo per prendere fiato e arrampicarmi fino alle pietre più alte del Telaione, un monte, come viene chiamato nonostante sia solo di 212 metri dove non c’è nulla tranne il rosso del granito e l’aria e dove si può stare in piedi nel vento e vedere il porto brulicare in lontananza con i traghetti carichi di passeggeri-formiche e le barche della scuola di Caprera ferme in qualche rada. Più vicino, se si è fortunati, si vedono gruppi di cinghiali, brutti, pelosi e liberi. Insieme al tonfo di qualche pigna che cade, i loro grugniti insieme al grido dei gabbiani corsi, sono gli unici rumori. Quando finalmente scendo, fischiando al cagnetto che mi accompagna e al quale do da mangiare, più che camminare scivolo sulle pietre più lisce dove bisogna andare scalzi perché il piede abbia più presa. Il vento diminuisce, è quasi mezzogiorno e il caldo di colpo tanto duro che bisogna scrutare la luce azzurra tra i cespugli e dirigersi verso quel bagliore di acque. È la spiaggia del Relitto dove tra la sabbia e gli scogli resta la carcassa di legno e ferro di una barca naufragata. Là, immergendo la testa nell’acqua fredda, come raccomandava Darwin, almeno per un attimo, scopriamo di non esistere
(Da: La Stampa, 8 agosto 2011)

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