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Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

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lunedì 8 agosto 2011

“Matti in libertà” ( di Maria Antonietta Farina Coscioni)

 
Articolo 21 - Libri e Giornalismo
“Matti in libertà” ( di Maria Antonietta Farina Coscioni)
“Matti in libertà” ( di Maria Antonietta Farina Coscioni) di Valter Vecellio
Lo conosciamo tutti, Sergio Staino: è il “papà” di Bobo, e attraverso le sue vignette da anni racconta entusiasmi e depressioni, illusioni e passioni dei “compagni”, di quei militanti del partito che non c’è, divisi come sono tra un passato idealizzato che comunque è passato; e un futuro che è un’aspirazione e non si sa come costruire e realizzare.
Sergio-Bobo, è una persona capace di slanci, di sogni, di speranze. E non si tira mai indietro, quando c’è una buona causa per cui può fare qualcosa. Giorni fa non è voluto mancare alla presentazione, alla libreria Mel Books di Roma, di “Matti in libertà”, il libro di Maria Antonietta Farina Coscioni (Editori Riuniti, pagg.288, 15 euro)  che racconta fatti e misfatti degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: “Dimenticati da tutti”, si legge nella bandella del volume, “costretti a vivere in strutture fatiscenti, circondati da agenti penitenziari, invece che da esperti medici e infermieri professionali. Ecco le disumane condizioni cui sono sottoposti gli internati degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, così come emergono dal viaggio inchiesta di Maria Antonietta Farina Coscioni. Le voci di chi in questo mondo ci vive, dai pazienti ai loro familiari, dai medici agli agenti di polizia penitenziaria. Gli accorati appelli di chi “non può essere aiutato perché il dolore lo porta dentro”.
    Il report di una realtà volutamente ignorata. Per questo libro Staino ha disegnato una batteria di vignette, che con “leggerezza” affrontano una questione dolorosa, denunciata l’altro giorno, con toni vibranti e commossi. nel corso del convegno radicale sulla Giustizia e il carcere dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
   Sergio-Bobo racconta la storia di queste vignette: “Arriva una telefonata, Maria Antonietta non la conoscevo. Sapevo chi era, la sua storia e quella di Luca, cosa fa in Parlamento, ma non l’avevo mai vista né sentita prima. Mi racconta del suo progetto, chiede se può utilizzare come post-fazione un intervento che avevo fatto a un convegno di Psichiatria Democratica. Dico di sì, ma non finisce qui, perché mi chiede qualche vignetta per il libro. Per quando? Subito, fa lei… Dico: mandami il manoscritto, per potermi fare un’idea. Lei mi dice che non può, perché lo sta ancora scrivendo, e che ha dei tempi strettissimi, l’editore preme… Sempre i soliti questi radicali… Mi sono messo al lavoro…”.
   Sarà che Antonietta ha saputo trovare le parole giuste e si è creata una “chimica” fatta di fiducia e simpatia reciproca; sarà che Staino è particolarmente sensibile alla questione, fatto è che due giorni dopo arrivano sei vignette. “Scegli quella che vuoi…”. “Mi piacciono tutte…”. “E allora sono tue…”. Un regalo, “perché ci sono cose che si sentono senza che ci sia bisogno di tanti discorsi, e io ho sentito che dovevo farlo ed era giusto…”.
   “Matti in libertà” racconta di una realtà penosa, un “viaggio” nei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani: non dovrebbero esserci ma ci sono; e dove sono ristretti malati, responsabili a volte di crimini atroci, ma che non sono stati ritenuti responsabili delle loro azioni: incapaci di intendere, ma non di volere. “Un mondo”, racconta Maria Antonietta, “fatto di sofferenza e dolore” in cui è piombata da quando, parlamentare, è impegnata nella commissione Affari Sociali della Camera. Ma strani scherzi combina il destino: nel paese di Maria Antonietta c’era una ragazza “strana”, che tutti evitavano, per timore, per pregiudizio. Sempre sola, questa ragazza, e Maria Antonietta l’unica che l’ascoltava e ogni tanto la portava a mangiare una pizza, una passeggiata…un dottore aveva stabilito che quella ragazza doveva essere ricoverata, e chiusa in quattro mura di clinica aveva passato gli anni più belli, imbottita di psiocofarmaci e quando non erano pillole erano gli elettroshock, “sapessi quanti ne ho fatti…”. Quella ragazza chiedeva solo di essere ascoltata…
   Ecco: a voler definire questo libro, si può dire che è il lavoro di una persona che ha saputo vedere e non solo guardare, ha saputo ascoltare e non solo sentire. Ed è un libro che “dice”: raccoglie le voci dei malati e delle loro famiglie, di chi quei malati cerca di aiutarli con i pochi mezzi che le istituzioni mettono a disposizione; gli Opg sono luoghi di custodia, dove sono rinchiuse 1400 persone e senza le condizioni per curarle. Andrebbero chiusi e al loro posto sarebbe necessario creare strutture sul territorio, investendo su “reti”, servizi e solidarietà.
   E’ una lettura che fa male, ti irrita e inquieta: arrivi all’ultima pagina e ti chiedi: com’è possibile che tutto ciò possa accadere, non si faccia nulla perché non accada? “Matti in libertà” ce lo spiega, ci rende consapevoli dell’insopportabilità di una situazione spesso rimossa; e suggerisce quello che bisogna fare e che da tempo andava fatto.
   Vai comunque a capire perché lo chiamano “ergastolo bianco”. Perché quel “bianco” per qualificare l'infinita 'prigione' degli internati negli Opg italiani? Cosa c’à di “bianco” nel finire – come si può finire – in quelle strutture? Perché è lì che può finire chi viene riconosciuto incapace di intendere e di volere. E lì, spesso, chi entra vi rimane per sempre. Nell'80 per cento dei casi la permanenza in Opg supera abbondantemente la durata della reclusione stabilita dal tribunale, le misure cautelari di sicurezza vengono prorogate di sei mesi in sei mesi.
   Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Aversa (Caserta), Napoli, Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova): è la mappa degli Opg italiani. Strutture che, dopo il reportage girato in occasione dei 'blitz' a sorpresa organizzati della Commissione parlamentare d'inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio sanitario nazionale, sono state definite le 'Abu Ghraib' del Belpaese. Oggi vi sono internate dalle 1.200 alle 1.500 persone.
   In principio erano i manicomi criminali. Poi nel 1978 arriva la legge Basaglia. E il nome cambia in Ospedali psichiatrici giudiziari. Non la sostanza, però: nei sei Opg, istituiti negli anni successivi alla legge 180, la commissione d'inchiesta di Palazzo Madama documenta sporcizia, degrado, misure di contenzione estreme, i 'pazienti' abbandonati a loro stessi. E c'è chi non ce la fa: nell'Opg di Aversa a inizio luglio le morti hanno raggiunto quota sette. Due dei pazienti deceduti, erano fra quelli considerati 'dimissibili'. Lo denunciano le 24 associazioni che, nell'aprile scorso a Roma hanno lanciato la campagna 'Stop Opg'. E una delle storie che raccontano è quella di un paziente di Aversa, 58enne con 3 figli, che si è tolto la vita proprio ad aprile dopo aver ricevuto la notizia di un'altra proroga della sua pena.
   Ma uscire dall'ospedale psichiatrico giudiziario e' difficile. Secondo i dati raccolti dalla Commissione d'inchiesta sul Ssn, ci sarebbero più di 180 pazienti 'dimissibili' perché socialmente non pericolosi, circa il 40 per cento del totale. Ma 6 su 10 rimangono dentro, con una proroga della 'detenzione'. Il motivo è la mancanza di strutture disposte ad accoglierli: comunità, dipartimenti di salute mentale. Anche le famiglie spesso si tirano indietro. Ci sono pazienti che hanno collezionato 23 proroghe, con oltre 10 anni di permanenza supplementare.
La Commissione ha ottenuto impegni per il superamento delle strutture, ma i problemi permangono. Tra gli Opg dove le cose sono andate peggio c'è sempre quello di Aversa dove sui 105 dismissibili solo 21 sono stati dimessi, 23 trasferiti e 2 deceduti. Dal lato opposto l'Opg di Reggio Emilia, dove sui 37 dismissibili sono effettivamente usciti 23 pazienti, 4 sono stati trasferiti e uno è deceduto.
   Dietro i cancelli degli Opg non si trovano solo autori di crimini efferati: c'è chi si è vestito da donna ed è andato davanti a una scuola 25 anni fa, chi nel '92 ha fatto una rapina da settemila lire in un'edicola fingendo di avere una pistola in tasca. Molti di loro hanno commesso un reato punibile con pochi mesi di prigione, come l'ingiuria. Eppure ci sono casi come quello di un ex paziente di 83 anni che ha finito di scontare la sua pena da 10 anni ed e' ancora internato.
   Pochissimi i medici, spesso generici e non psichiatri, presenti appena 4 ore a settimana in strutture in cui si contano anche 300 persone. Sulla chiusura degli Opg si continua a dibattere, la Commissione vuole chiuderne almeno tre su sei e arrivare all'individuazione di nuove strutture a custodia attenuata da destinare al trattamento sanitario degli internati. E comunque, dopo i blitz, per la Commissione di Palazzo Madama gli Opg da bocciare erano cinque su sei. L'unico a salvarsi quello in provincia di Mantova, risultato in buone condizioni e con un'assistenza di qualità per le persone internate. 

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