Cesare Pavese, l'Einaudi e lo stalinismo
Nel 1949 il PCI si attivò sull'editore Einaudi per bloccare l'uscita di un libro di poesia critico sul sistema sociale sovietico. Un episodio "preistorico" di censura. Oggi nella moderna società dello spettacolo non accadrebbe più. Dei libri non interessa più a nessuno, il potere teme soprattutto il mezzo televisivo ed è lì che interviene per sorvegliare e reprimere. Esemplare il caso di Roberto Saviano, censurato in tv da quegli stessi che avevano pubblicato i suoi libri.
Lorenzo Mondo
Pavese, un fiore avvelenato per lo Struzzo
Esce finalmente, dopo una lunga attesa e stuzzicanti anticipazioni, il carteggio integrale tra Cesare Pavese e Renato Poggioli, tra lo scrittore ormai famoso e l'illustre slavista e comparatista che insegnava allora a Harvard. Si erano già incontrati idealmente nel 1932, quando uscirono presso Frassinelli le rispettive traduzioni di Moby Dick e dell'Armata a cavallo di Babel. Ma adesso Pavese, colonna portante della casa editrice Einaudi, impegna il professore, che coltiva proficui rapporti con gli ambienti culturali d'oltreoceano, nella segnalazione di nuovi libri e talenti. Nasce così, tra via Biancamano e Harvard, un rapporto di lavoro che diventa stretta amicizia e, per usare le parole di Poggioli, un meeting of minds (una espressione ripresa nel titolo di questo libro: Cesare Pavese-Renato Poggioli, A meeting of minds. Carteggio 1947-1950, a cura di Silvia Savioli, introduzione di Roberto Ludovico, Edizioni dell'Orso).
Prende intanto corpo, al di là delle consulenze editoriali, il progetto di pubblicare Il fiore del verso russo, una folta antologia di poeti, a cavallo tra Otto e Novecento, scelti e tradotti da Poggioli. Ed è qui che scoppia un caso clamoroso, che investe la casa dello Struzzo e influirà sullo stesso destino di Pavese. La vicenda era già stata ricostruita nelle sue linee essenziali da Luisa Mangoni (Pensare i libri, la casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta) ma qui si arricchisce di ulteriori, preziosi apporti. Va detto subito, e la cosa avrà il suo peso, che è il solo Pavese a gestire il rapporto con Poggioli. «Tenga presente - scrive in una lettera del 2 maggio '49 - che, a parte una scorsa che darò io stesso alle bozze, praticamente nessun altro le leggerà».
Le leggerà invece Giulio Einaudi prima che il libro vada in stampa e, presumibilmente, ne avrà un sobbalzo, tanto da decidere che al Fiore venga premessa un'Avvertenza in cui si prendano le distanze dalle posizioni, non estetiche ma politiche, dell'autore. In essa si leggono tra l'altro osservazioni di questo tenore: «Quando si chiude un libro come questo sorgono delle domande e dei dubbi: è possibile trasformare in modo radicale la vita di un popolo lasciandone intatta la vita precedente? \ La guerra, qualunque guerra, non si fa mobilitando tutte le energie?».
Einaudi presagiva aria di tempesta. Perché, come riferisce eufemisticamente Pavese al suo interlocutore, «qui non tutti sono entusiasti del Fiore». In realtà, il libro fu oggetto di attacchi violentissimi, dentro e fuori la casa editrice, e rischiò di compromettere il suo rapporto privilegiato con il Partito comunista e l'annunciata pubblicazione degli scritti di Togliatti. Si pose rimedio al cocente imbarazzo annullando l'accordo confidenziale, ma ormai in fase avanzata di realizzazione, per la pubblicazione di un saggio dello stesso Poggioli, Teoria dell'arte d'avanguardia. Pavese, che si era sbilanciato con l'autore, si scusa dell'imprevisto, dettato da un «odium nominis» nei suoi confronti, così acre che minaccia «di liquidare l'unità del consiglio editoriale».
Ma cosa conteneva quel libro di poesia per mobilitare lo staff einaudiano e gli emissari del Pci contro Renato Poggioli? Senza risparmiare, alla fine, lo stesso Pavese? Bastano poche righe dell'introduzione a spiegare tanto risentimento. L'affermazione della rivoluzione sovietica - scrive Poggioli - «ha fra l'altro significato, con la decadenza dell'arte, il crepuscolo della poesia», e della letteratura, asservita da narratori mediocri alle «esigenze d'agitazione e propaganda del partito, del regime, dello Stato». Più avanti, Poggioli denuncia il vero e proprio «martirologio di scrittori» nella Russia postrivoluzionaria: «Aleksandr Blok morto di crepacuore, Gumiliev fucilato, Esenin e Majakovskij suicidi, Pasternak perseguitato, Anna Achmatova messa al bando, Mandelstam morto al confino». Tutte espressioni di un «antisovietismo» inaccettabile per una casa editrice che si vuole «progressista».
Dando per scontato il pesante pedaggio pagato da tanti intellettuali al mito della Rivoluzione d'Ottobre, sul Fiore avvelenato occorre fare alcune osservazioni, dire che l'antologia nacque in parte per un serie di malintesi. Ci fu la segnalata disattenzione di Giulio Einaudi, l'assoluta e sviante devozione di Pavese per la letteratura, la persuasione ingenua di Poggioli che il più importante editore di cultura potesse garantire una sufficiente franchigia alle sue idee. Poggioli sopporta di buon animo le censure imposte al suo lavoro (e più avanti continuerà a collaborare con la Einaudi) ma non nasconde la delusione: «Quella polemica mi fa capire quanto io sia fortunato nel non vivere in un'Italia dove se non sei rosso ti credono nero. Io rifiuto di essere rosso o nero».
La storia non finisce qui. Perché Silvia Savioli, l'impeccabile curatrice del volume, ha scoperto che la famosa Avvertenza pubblicata in limine all'antologia e attribuita all'editore, era stata vergata da Pavese, che non abbe l'animo di confidarlo all'amico. Anche in questa vicenda editoriale - osserva Roberto Ludovico nel suo saggio introduttivo - «Pavese era schiacciato tra la linea della casa editrice e del partito, e il desiderio di non deludere il rapporto umano e professionale con Poggioli che si basava su stima e rispetto reciproci». Affiora in altre parole dal carteggio la sua sofferta ambiguità, il suo dibattersi fino all'estremo in un sentimento di inadeguatezza e frustrazione che, di lì a pochi mesi, lo porterà a morire.
(Da: La Stampa del 7 luglio 2010)
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