La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

lunedì 15 settembre 2014

ALIAS DOMENICA Un topografo illuminista per Virgilio

da il manifesto
ALIAS DOMENICA

Un topografo illuminista per Virgilio

Ti ricordi il viaggio in Italia?. Svizzero di Berna, lettore convinto di Rousseau, amico di M.me De Staël, Karl Viktor von Bonstetten viene nel Lazio per cercare palmo a palmo, a cavallo, le tracce fisiche delle scene dell’«Eneide»

C. W. Eckersberg, Fontana Acetosa, Copenaghen, Museo Thorvaldsen
‘’Si sono fatti grandi e fati­cosi viaggi per stu­diare i luo­ghi della scena dell’Iliade di Omero. A Roma io mi vedevo a cinque-sei leghe da Lau­rento, da Lavi­nio, da Ardea, dal campo dei Tro­iani, e avrei potuto in un paio di giorni per­cor­rere la scena dei sei ultimi libri dell’Eneide…». Con que­ste esatte parole lo sviz­zero Karl Vik­tor von Bon­stet­ten sfi­dava i let­tori a una ine­dita avven­tura topo­gra­fica, inau­gu­rando all’inizio del dician­no­ve­simo secolo un capi­tolo par­ti­co­lare, archeo­lo­gico e vir­gi­lia­ni­sta, del Grand Tour. Ma anzi­tutto chi era Bon­stet­ten? Scrit­tore e stu­dioso, pen­sa­tore, filo­sofo e uma­ni­sta libe­rale, gover­na­tore distret­tuale, mem­bro cor­ri­spon­dente di tre acca­de­mie stra­niere, spi­rito curioso e poli­glotta, con­ver­sa­tore cosmo­po­lita… Si deve ricor­rere a una rosa, per pre­sen­tarlo. Nato a Berna da antica fami­glia alto­lo­cata, e un po’ oppri­mente, allarga le vedute leg­gendo mol­tis­simo, soprat­tutto clas­sici del pen­siero e della let­te­ra­tura latini, fran­cesi e tede­schi; ma è a Gine­vra, dove si tra­sfe­ri­sce diciot­tenne per pro­se­guire gli studi, che comin­cia a inta­gliare la per­so­na­lità, a col­ti­vare le disci­pline (sto­ria, diritto poli­tico) fre­quen­tando le éli­tes intel­let­tuali. Così prende par­tito per Rous­seau, nell’occhio del ciclone; è atti­rato nella sfera d’influenza del filo­sofo Char­les Bon­net – deci­sivo anche in rela­zione al libro di cui ci occu­pe­remo –, entra in con­tatto tra gli altri con Ben­ja­min Con­stant e con Vol­taire, reci­tando nel suo tea­tro a Fer­ney. Verso la fine del 1773 a Milano cono­sce il conte di Fir­mian e il cir­colo degli illu­mi­ni­sti lom­bardi, i cui raggi anti­cle­ri­cali e rifor­mi­sti erano giunti sino a Berna e a Ginevra.
Bon­stet­ten venne una prima volta in Ita­lia, fer­man­dosi a Roma; vi ritornò dopo un breve esi­lio danese e il suc­ces­sivo rim­pa­trio in Sviz­zera, nell’inverno 1802-’03. Ora ha sui cin­quan­ta­sette anni, essendo nato nel 1745. Sorta di enci­clo­pe­dia a strati, sia a cielo aperto sia indoor (i musei, le col­le­zioni), Roma tra­di­zio­nal­mente atti­rava viag­gia­tori e cono­sci­tori. Si veniva per toc­care con mano le anti­chità, i cui ‘mate­riali’ ave­vano nutrito negli ultimi due secoli – tre, se sim­bo­li­ca­mente fis­siamo lo star­ter sul ritro­va­mento del gruppo del Lao­coonte vati­cano – nuovi fasti sulla spinta di altri impe­ra­tori e mece­nati, i papi archi­tetti, urba­ni­sti, col­le­zio­ni­sti. Un’influente ideo­lo­gia dell’antico, con il suo canone che impe­gnava scrit­tori e arti­sti, intel­let­tuali e anti­quari, costi­tuiva il banco di prova deci­sivo per for­giarsi da moderni. A Roma Bon­stet­ten porta con sé l’Eneide. La lègge per la quarta volta, con­tem­po­ra­nea­mente – con­fessa nelle note auto­bio­gra­fi­che – all’illuministico Tra­monto e caduta dell’Impero romano di Edward Gib­bon, dando vita – si imma­gina – a un ping pong fiam­meg­giante. A quell’altezza la stella di Vir­gi­lio non è ancora entrata nel cono d’ombra dei roman­tici, e nuove ini­zia­tive edi­to­riali sti­mo­lano gli arti­sti a inci­dere illu­stra­zioni con le vedute dei luo­ghi del poema nel Lazio e nella Campania.
Non sap­piamo se sia stato un ‘clic’ alla Spi­tzer rumi­nando Vir­gi­lio, fatto sta che ripen­sando da vec­chio, a Gine­vra, alla sua avven­tura intel­let­tuale, Bon­stet­ten attri­bui­sce pro­prio a quella rilet­tura la molla a uscire dalla cala­mita Roma per intra­pren­dere insieme a due amici danesi un iti­ne­ra­rio a cavallo nella cam­pa­gna cir­co­stante e lungo il lito­rale, allo scopo pre­ciso di iden­ti­fi­care i prin­ci­pali tea­tri della seconda metà del poema – pro­prio l’esade che avrebbe anno­iato il gio­vane Leo­pardi –, aggi­rando per forza di cose osta­coli e peri­coli da romanzo d’avventure, per la pres­so­ché totale man­canza di strade, le insi­die sot­tili di malat­tie come la mala­ria, gli appo­sta­menti di ladri e bri­ganti, la dif­fi­coltà di rifo­cil­larsi e di pro­cu­rarsi per­sino il pane, tro­vare asilo per la notte. Quasi ovun­que regnano la deso­la­zione, l’acquitrino e la palude; pastori smunti – pun­tini umani iso­lati nel deserto –, alcuni hanno nidi­fi­cato su rovine affio­ranti, sem­pre che non siano state ricon­qui­state dal fogliame, dalla natura; solo qual­che pol­mone boschivo, eppure non scende la tem­pe­ra­tura del cer­ca­tore d’oro, e l’oro è Virgilio.
Il 27 marzo Bon­stet­ten lascia in calesse l’abitato di Roma muo­vendo dal Giar­dino di Malta, dove allog­gia. Sùbito ci offre un pic­colo pre­se­pio vivente: sono le sei e mezza di mat­tino, gli arti­giani si met­tono all’opera alle­stendo i loro ate­liers mobili davanti casa. Le donne, a dif­fe­renza dei bam­bini, restano a letto. Si tratta di letti molto grandi, annota, capaci di con­te­nere tutta quanta la fami­glia («si dice che vi dor­mano inte­ra­mente nudi»), ma sol­tanto metà della popo­la­zione ha dove cori­carsi. Già prima delle sette entrano in fun­zione le cucine, il popolo man­gia «en public». I negozi sono tavoli per la strada ricolmi di pesce fre­sco, che viene fritto sul momento. Spun­tano i men­di­canti, con la padella e le ele­mo­sine del giorno prima. A Roma sono una tribù – scrive – con le sue leggi, le sue regole: cia­scuno ha un pro­prio angolo asse­gnato, che si tra­smette per ere­dità… È que­sto l’incipit del repor­tage, con la sua forte colo­ri­tura socio­lo­gica che risponde meno al boz­zet­ti­smo dello scrit­tore che all’interesse antro­po­lo­gico dello studioso.
Dal viag­gio all’edizione del libro è tra­scorso poco tempo. «…Rista­bi­li­tomi a Gine­vra – scri­verà anni dopo – sen­tii di poter fare a meno della lin­gua tede­sca e Madame de Staël, che con la sua ami­ci­zia eser­ci­tava un enorme influsso su di me, mi per­suase a scri­vere in fran­cese. Il mio libro sul Lazio fu la mia prima opera redatta in que­sta lin­gua. Lo com­posi sulla base di appunti in tede­sco. A Roma avevo steso le bozze di quat­tro mete, già pen­sando alla loro pub­bli­ca­zione: il Lazio, Pale­strina, Anzio e Licenza, la tenuta di Ora­zio» (pro­getto edi­to­riale solo in parte rea­liz­zato, fra l’altro il mano­scritto sulla villa di Ora­zio è andato disperso). È il 1804, dun­que, quando viene pub­bli­cato a Gine­vra Voyage sur la scène des six der­nier livres de l’Enéide. Sùbito atten­zione alle date, che strin­gono l’ignaro Bon­stet­ten nell’impari con­fronto con il genio roman­tico di Cha­teau­briand, la cui Let­tera sulla cam­pa­gna romana al signor de Fon­ta­nes esce pro­prio nello stesso anno sul «Mer­cure de France», pre­ci­sa­mente nel numero del 3 marzo. Anche se alcuni tableauxpae­sag­gi­stici sug­ge­ri­reb­bero acco­sta­menti – come si fa con due foto­gra­fie del mede­simo pano­rama scat­tate da mani dif­fe­renti –, il viag­gio dello sviz­zero impal­li­di­sce al cospetto del fol­go­rante testo di Cha­teau­briand – del quale Sainte-Beuve soste­neva che, in prosa, «il n’y a rien au delà». E tut­ta­via la con­co­mi­tanza e l’abissso, non solo ‘di stile’ ma anche ideo­lo­gico, costi­tui­scono una pro­vo­ca­zione inter­pre­ta­tiva, per­lo­meno per il let­tore venuto due secoli dopo. Non si è sot­tratto per esem­pio Michel Den­tan, cura­tore di un’edizione moderna del Viag­gio nel Lazio pre­sta­tami dall’amica San­dra Pinto (col bat­ti­cuore che pro­cura il veder uscire certi libri pic­coli ma rari dalla pro­pria biblio­teca, sia pur tem­po­ra­nea­mente): ‘l’osservatore Bon­stet­ten, scri­veva Den­tan nel 1971, vi si rivela poeta, di una poe­sia molto dif­fe­rente da quella di Cha­teau­briand: lungi dal cer­care il pit­to­re­sco per dipin­gere qua­dri sor­pren­denti di magni­fi­cenza, egli si attiene alla descri­zione esatta di quel che vede’.
Col­pi­sce in Bon­stet­ten l’appuntito e insieme sereno, con­na­tu­rale, spi­rito di osser­va­zione, nono­stante resti sot­to­messo a una delle tesi di fondo più for­za­ta­mente a priori: il pri­mato della Natura sui ‘monu­menti’ («gli uomini e le nazioni pas­sano, la natura resta»). L’osser­va­tore non si fa sopraf­fare facil­mente però dallo scrit­tore o dall’intellettuale, con le loro digres­sioni enci­clo­pe­di­che e teo­ri­che nutrite di valori moderni. E comun­que la tra­iet­to­ria filo­so­fica riporta sem­pre ine­so­ra­bil­mente a qual­che esa­me­tro dell’Eneide – tra­scritto a tavo­lino, in fase di mon­tag­gio – e alla sua ‘poe­sia di verità’. Sem­bra un Vir­gi­lio ome­rico, quasi onni­sciente, ma per Bon­stet­ten è la Sto­ria stessa – come già soste­neva Dio­nigi di Ali­car­nasso, spesso chia­mato in causa – a for­nire le prove della leg­genda di Enea, che esule da Troia sbarcò in Ita­lia per dare una nuova dimora agli dèi Penati, strinse alleanze, fece la guerra, uccise Turno in duello, sposò la figlia di Latino Lavi­nia, e final­mente fondò una nuova città e una nuova discen­denza glo­riosa. Lo scac­chiere delle ori­gini di Roma è ancora qui, pos­siamo cal­pe­starlo. Il pro­filo dei Castelli, il fiume, il cielo, la linea dell’orizzonte sul mare tra Fiu­mi­cino e Anzio, quel che gli eroi dell’Eneide vede­vano non si è mai mosso; e sotto la col­tre pae­si­stica lavo­rata dai secoli e dalla lunga deca­dence, affiora quasi intatta, chi­lo­me­tro dopo chi­lo­me­tro, anzi lega dopo lega come in Jules Verne, la ‘scena’ antica del poema. Se i valo­rosi viri della Roma repub­bli­cana veni­vano messi in cor­nice da David e dai pit­tori di Sto­ria per par­lare ai con­tem­po­ra­nei, in Bon­stet­ten i pro­ta­go­ni­sti dell’Eneide tor­nano con il guizzo altret­tanto esem­plare – senza tempo – delle loro vicende, e s’accampano sca­glio­nati non dalla sequenza del poema ma dalle tappe del viag­gio: Ostia, il campo di Enea, il campo di Turno, la reg­gia di Latino, Lau­rento e la selva popo­lata dai cin­ghiali (anche Vir­gi­lio ha una famosa simi­li­tu­dine col cin­ghiale), Lavi­nio, Albu­nea con le sue acque lat­ti­gi­nose, ritro­vata e ‘rimessa al pro­prio posto’ cor­reg­gendo Ser­vio. Così, ad esem­pio, nella rico­stru­zione topo­gra­fica della sor­tita ‘mili­tare’ di Eurialo e Niso (IX libro) Bon­stet­ten ha modo di veri­fi­care la «par­faite con­nais­sance du ter­rain» da parte del poeta, ma non può igno­rare che anche il Tevere ha «ses rui­nes», il suo antico letto ora si chiama Fiume-Morto: occor­rerà tenerne conto, per loca­liz­zare con pre­ci­sione l’accampamento degli Eneadi (chia­mato «Troja»), con il lago for­mato dal fiume moderno alle spalle, e il mare in fac­cia, un po’ spo­stato a destra.
Far rivi­vere Vir­gi­lio nella (nono­stante la) deso­lante attua­lità in cui è in gran parte pre­ci­pi­tato il suo set, sem­bra que­sto il man­dato let­te­ra­rio di Bon­stet­ten. Se nel testo di Cha­teau­briand sen­tiamo pul­sare la ten­sione sti­li­stica delle equi­va­lenze ver­bali(non è più pos­si­bile descri­vere la mera­vi­gliosa cam­pa­gna romana senza rifarsi alla luce fis­sata un tempo da Pous­sin e Lor­rain), lo sviz­zero è divo­rato piut­to­sto dalla voglia di ritro­vare dopo diciotto secoli il det­tato vir­gi­liano, di met­tere a regi­stro i pano­rami, anche quelli per niente idil­liaci, attra­verso il testo dell’Eneide, cal­co­lando le even­tuali cor­re­zioni impo­ste dal pro­gresso della natura e ricor­rendo quando è neces­sa­rio alla filo­lo­gia uffi­ciale, dal com­mento di Ser­vio a quello di Heyne, un’auctoritas recente. Que­sta è la selva in cui Fauno, il padre di Latino, ammonì a non cer­care «nozze latine» ma ad atten­dere sposi venuti da lon­tano; nelle acque lim­pide del parco di Castel-Fusano dove­vano esserci in antico le sor­genti del Numico, dove è fama sia scom­parso Enea, tran­si­tando diret­ta­mente in cielo; un san­tua­rio di Sant’Anna, incon­trato sulla via del ritorno a Roma, apre a una lunga digres­sione ovi­diana su Anna Perenna, cele­brata nelle idi di marzo, e sul mito della sorella di Didone…
Bon­stet­ten sem­bra cer­care nella poe­sia clas­sica soprat­tutto il motore cono­sci­tivo, più che este­tico. Omero – osserva – attinge alla mede­sima fonte di Ero­doto e Dio­doro Siculo, siamo noi moderni ad avere sepa­rato la Sto­ria dalla poe­sia, la verità dalla fin­zione; «la poe­sia presso gli Anti­chi rive­lava fatti troppo lon­tani per essere per­ce­piti dagli occhi dell’uomo qua­lun­que…». È quasi una posi­zione neo-esiodea? Le Muse hanno affi­dato al poeta il com­pito di «dire il vero», per­ciò la «véri­ta­ble poé­sie» dovrà cer­care, come fecero Omero e Ossian (due cuspidi del canone dell’epoca), «la verità in tutta la sua ener­gia, in tutta la sua armo­nia con la natura…». Ora, sull’Italia ai tempi di Troia, rico­no­sce Bon­stet­ten, Vir­gi­lio aveva a dispo­si­zione ben pochi ‘monu­menti sto­rici’ certi. Se Omero è stato il primo degli sto­rici in quanto «ha dipinto meglio di chiun­que altro i costumi della gente di cui parla» – costumi sia in senso morale sia in senso fisico –, lo ‘sto­rico’ Vir­gi­lio è rico­no­sci­bile soprat­tutto per il suo tatto: il mede­simo tatto «che lo fa poeta». I regnanti ita­lici, per esem­pio; Mezen­zio; Mètabo padre di Camilla; lo stesso Latino, non sono certo farina di Omero, «è nel Lazio che il poeta latino aveva tro­vato i costumi e le usanze dell’Odissea e dell’Iliade».
Que­sto genere di osser­va­zioni sulle fonti sto­ri­che della poe­sia vir­gi­liana e, altrove, sulle leggi uni­ver­sali de l’histoire de l’homme, scan­di­scono il Voyage senza signi­fi­ca­tivi salti logici o disci­pli­nari, paiono anzi ingra­nate dalla dina­mica che Bon­stet­ten isti­tui­sce tra i versi dell’Eneide e i siti laziali attuali, quasi senza solu­zione di con­ti­nuità. Per­sino il più pic­colo det­ta­glio natu­ra­li­stico può essere dun­que ritro­vato e rico­no­sciuto dopo diciotto secoli. È una posi­zione che oggi fac­ciamo fatica ad acco­gliere, tut­ta­via è one­sto ricor­dare qui che pro­prio a Vik­tor von Bon­stet­ten gli stessi vir­gi­lia­ni­sti hanno fatto risa­lire la ‘disci­plina’ della topo­gra­fia dell’Eneide. Altri segui­rono, Bois­sier e, con un più spe­ci­fico baga­glio sto­rico e anti­qua­rio, Ehr­lich e Rit­ter, verso la fine del secolo ‘tede­sco’. Quel che poi il Nove­cento, per­lo­meno a par­tire da Heinze, ha via via defi­ni­ti­va­mente mutato nella inter­pre­ta­zione del poema è pro­prio la sua (pre­sunta o pro­ba­bile) veri­di­cità topo­gra­fica – se così pos­siamo chia­marla avendo acqui­sito la con­sa­pe­vo­lezza del ruolo gio­cato dall’arredo geo­gra­fico e pae­sag­gi­stico nell’economia com­po­si­tiva e nei suoi effetti ideo­lo­gici. In altre parole, non è affatto neces­sa­rio, anzi è quasi sem­pre scon­si­glia­bile, ‘recarsi sul posto’ per com­pren­dere il signi­fi­cato pro­fondo di quel che il testo recita. Per que­sto dob­biamo sospen­dere un po’ la nostra incre­du­lità, leg­gendo l’autoscopia di Bon­stet­ten. La fede asso­luta nella cor­ri­spon­denza topo­gra­fica di Vir­gi­lio vi è più volte enun­ciata, ma oggi nes­suno leg­ge­rebbe più l’Eneide sfo­de­rando una simile inge­nuità nar­ra­to­lo­gica e tra­scu­rando quasi del tutto le con­ven­zioni let­te­ra­rie e l’officina del poeta, sia pure di un poeta così ‘natu­ra­li­sta’. Da tempo tra i vir­gi­lia­ni­sti si sono assot­ti­gliate le file di quanti ancora negli anni ses­santa e set­tanta ‘cre­de­vano’ all’Eneide come docu­mento sto­rico con vali­dità etno­gra­fica e paleologica.
A ciò dovremmo aggiun­gere per­lo­meno un’altra con­si­de­ra­zione: il rin­no­va­mento del mito da parte di Vir­gi­lio, non sol­tanto in certe sfu­ma­ture eru­dite, ‘ales­san­drine’, ma per esem­pio in rela­zione a snodi strut­tu­rali del poema come lo sbarco di Enea nel Lazio («Tro­iae qui pri­mus ab oris // Ita­liam fato pro­fu­gus Lavi­nia­que venit / litora»), alla cui esatta deter­mi­na­zione il Voyage di Bon­stet­ten dedica peral­tro molte pagine e meti­co­lose misu­ra­zioni. La ver­sione tra­di­zio­nale del mito voleva che le navi di Enea dirette alla terra pro­messa sbar­cas­sero vicino a Lavi­nium, l’attuale Pra­tica di Mare (altra tappa obbli­gata, con pagine tra le migliori); nel rac­conto di Vir­gi­lio invece, sin dalla pro­fe­zia di Creusa nel II libro, esse appro­dano alla foce del Tevere, una ‘loca­tion’ che nell’economia del poema avrebbe faci­li­tato il viag­gio da Evan­dro, il primo alleato indi­cato anche dalla Sibilla. «Vir­gi­lio giuoca col mito come un gatto col topo­lino» ha affer­mato con umo­ri­smo uno dei suoi più pro­fondi cono­sci­tori, Nicho­las Hor­sfall; e pescando in un altro campo meta­fo­rico aggiunge: il mito è per lui «come l’argilla per il vasaio: può diven­tare o una sta­tua di Venere o un can­taro». Pro­prio Hor­sfall ha dimo­strato che Vir­gi­lio – pro­ba­bil­mente per met­tere in luce migliore Lavi­nium nella sua stra­te­gia genea­lo­gica – non ha mai asse­gnato un nome spe­ci­fico alla città di Latino, la Lau­rento della vul­gata, cui Bon­stet­ten dedica con zelo ed entu­sia­smo una rico­gni­zione di diverse pagine, teste Pli­nio, uno dei sapienti irrinunciabili.
Que­ste rive­la­zioni non tol­gono certo il gusto anti­qua­riale e sbri­gliato della let­tura, quell’ostinazione nel met­tere una dopo l’altra le ban­die­rine vir­gi­liane nel Lazio per­corso al trotto («quasi mai al galoppo», dice a un certo punto), tra nuovi sel­vaggi alla Rous­seau, relitti umani, cap­puc­cini gesti­co­lanti: come un bota­nico che piazzi i suoi car­tel­lini col nome scien­ti­fico in latino alla base delle piante di una riserva natu­rale, Bon­stet­ten rita­glia gli esa­me­tri. Da que­sto punto di vista l’utilizzo nel testo dei passi vir­gi­liani è pura­mente ‘con­fer­ma­tivo’ della sua inchie­sta sul campo, non com­porta quasi mai slit­ta­menti inter­pre­ta­tivi. Natu­ral­mente que­sta com­pat­tezza quasi trans-storica non deve farci dimen­ti­care nel corso della let­tura di mano­vrare, con un po’ di ‘cri­tica della rice­zione’, le lan­cette dei vari oro­logi che ideal­mente abbiamo davanti (l’ora di Vir­gi­lio, l’ora del Mito, l’ora di Napo­leone…). Bon­stet­ten, dal canto suo, passa da un qua­drante all’altro con grande disin­vol­tura. Uscendo da Roma egli incon­tra la vec­chia Porta Tri­ge­mina, che adesso si chiama San Leone, – «dove anti­ca­mente Coclite difese il primo ponte dell’urbe, che sepa­rava i romani da Por­senna e dall’esercito di Tar­qui­nio». In quel men­tre, osserva, «un vascello russo carico di grano dalla Cri­mea risale il Tevere». Com­mento: «tre, quat­tro­mila anni fa si com­po­ne­vano poemi epici per cele­brare Enea, Aga­men­none o prima ancora Gia­sone per aver fatto la guerra fuori dal loro pic­colo mare; oggi si va senza glo­ria dalla Col­chide a Roma». No, non è il pen­nello di Chateaubriand.


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