La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

mercoledì 10 settembre 2014

La fabbrica del soggetto neoliberista

da MicroMegaLa fabbrica del soggetto neoliberista

La-fabbrica-del-soggetto-neoliberista-499
di PIERRE DARDOT e CHRISTIAN LAVAL
Dopo aver ricevuto una buona accoglienza oltralpe, è da poco apparso in Italia “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista” di Pierre Dardot e Christian Laval. In gran parte ispirato all’impostazione di lavoro inaugurata da Michel Foucault, il libro offre una delle più acute ricostruzioni delle vie attraverso cui le idee neoliberiste sono giunte a permeare le pratiche di governo dell’establishment occidentale. In questa sede il lettore troverà, per gentile concessione dell’editore DeriveApprodi, un estratto del capitolo tredicesimo del libro. 

 L’ARTICOLO IN PDF
la-nuova-ragione-del-mondo-deriveapprodiLa concezione che vede nella società un’impresa costituita di imprese non può non generare una nuova norma soggettiva, che non corrisponde più esattamente a quella del soggetto produttivo delle società industriali. Il soggetto neoliberista in via di formazione – di cui vorremmo ora tratteggiare alcune delle caratteristiche principali – è in relazione con un dispositivo di prestazione e godimento che è l’oggetto di numerose ricerche. Non mancano oggi le descrizioni dell’uomo «ipermoderno», «incerto», «flessibile», «precario», «senza gravità». Queste ricerche preziose, e spesso convergenti, all’incrocio tra psicanalisi e sociologia, rendono conto di una nuova condizione dell’uomo, che si rifletterebbe secondo alcuni fino all’economia psichica stessa.
Da una parte numerosi psicanalisti dichiarano di avere in cura pazienti affetti da sintomi che testimoniano di una nuova era del soggetto. Il nuovo stato soggettivo è spesso rapportato nella letteratura clinica a categorie vaste come l’«era della scienza» o il «discorso capitalista». Il fatto che una prospettiva storica si sostituisca a una strutturale non stupirà i lettori di Lacan, per il quale il soggetto della psicanalisi non è una sostanza eterna né una costante trans­storica, ma l’effetto di discorsi inscritti nella storia e nella società[1]. Dall’altra, in campo sociologico, la trasformazione dell’«individuo» è un fatto innegabile. Ciò che viene designato il più delle volte con il termine ambiguo di «individualismo» fa riferimento talvolta a mutazioni morfologiche, nella tradizione di Durkheim, talvolta all’espansione dei rapporti mercificati, nella tradizione marxista, tal volta ancora all’estensione della razionalizzazione a tutti i campi dell’esistenza, secondo un filo più weberiano.
Psicanalisi e sociologia registrano dunque ciascuna a suo modo una mutazione del discorso sull’uomo che può essere rapportata, come in Lacan, da un lato alla scienza e dall’altro al capitalismo: è proprio un discorso scientifico che dal XVII secolo comincia a enunciare cosa sia l’uomo e cosa debba fare ed è proprio per fare dell’uomo quell’animale produttivo e consumatore, quell’es­sere di fatiche e bisogni, che un nuovo discorso scientifico ha cercato di ridefinire il metro umano. Ma tale quadro assai generale è ancora insufficiente per spiegare come una nuova logica normativa abbia potuto imporsi nelle società occidentali. In particolare, non mette a fuoco le inflessioni che la storia del soggetto occidentale ha potuto subire negli ultimi tre secoli, e meno ancora le trasformazioni in corso che possono essere messe in relazione con la razionalità neoliberista.
Il nuovo soggetto, se di nuovo soggetto si tratta, deve essere colto nelle pratiche discorsive e istituzionali che alla fine del XX secolo hanno prodotto la figura dell’uomo-impresa, o «soggetto imprenditoriale», favorendo l’imposizione di una fitta trama di sanzioni, incentivi e coinvolgimenti che generano comportamenti psichici di un tipo nuovo. Portare a compimento l’obiettivo di riorganizzare da cima a fondo la società, le imprese e le istituzioni tramite la moltiplicazione e l’intensificazione dei meccanismi, delle relazioni e dei comportamenti di mercato, tutto questo non può non implicare una trasformazione dei soggetti. L’uomo benthamiano era l’uomo calcolatore del mercato e l’uomo produttivo delle organizzazioni industriali. L’uomo del neoliberismo è competitivo, completamente immerso nella competizione mondiale. Di questa trasformazione si è parlato continuamente nelle pagine precedenti. Si tratta ora di descriverne più sistematicamente le forme molteplici.
Il soggetto plurale e la separazione delle sfere
Da dove cominciare? Per molto tempo, il soggetto occidentale che chiamiamo «moderno» è stato sottoposto a regimi normativi e registri politici insieme eterogenei e conflittuali gli uni rispetto agli altri: la sfera del costume e della religione delle società del passato, la sfera della sovranità politica, la sfera degli scambi commerciali. Il soggetto occidentale viveva dunque in tre spazi diversi: quello delle occupazioni e delle credenze di una società ancora rurale e cristianizzata, quello degli Stati nazionali e della comunità politica, quello del mercato monetario del lavoro e della produzione. Tale ripartizione è stata fluida sin dall’inizio, e la posta in gioco dei rapporti di forza e delle strategie politiche consisteva proprio nel fissarne o modificarne le frontiere. Le grandi lotte che riguardavano la natura stessa del regime politico ne danno un’espressione curiosamente condensata. Più importanti, ma più difficili da af­ferrare, sono le progressive modificazioni dei rapporti umani, le trasformazioni delle pratiche quotidiane indotte dalla nuova economia, gli effetti soggettivi delle nuove relazioni sociali nello spazio commerciale e delle nuove relazioni politiche nello spazio della sovranità.
Le democrazie liberali sono state sistemi dalle tensioni molteplici e dalle spinte divergenti. Senza entrare in considerazioni che oltrepassano i nostri scopi, possiamo descriverle come regimi che permettevano e rispettavano entro certi limiti un funzionamento eterogeneo del soggetto, ovvero assicuravano al contempo la separazione e l’interconnessione delle diverse sfere della vita. Tale eterogeneità si manifestava nella relativa indipendenza delle istituzioni, delle regole, delle norme morali, religiose, politiche, economiche, estetiche e intellettuali. Ciò non significa che le caratteristiche di equilibrio e «tolleranza» esauriscano la natura del movimento che le ha animate. Due grandi spinte parallele sono coesistite: la democrazia politica e il capitalismo. Allora l’uomo moderno si è sdoppiato: il cittadino con i suoi diritti inalienabili e l’uomo economico guidato dall’interesse, l’uomo come fine e l’uomo come mezzo. La storia di questa «modernità» ha consacrato uno squilibrio verso il secondo polo. Se si volesse privilegiare lo sviluppo, anche se contrastato, della democrazia, come fanno certi autori[2], si perderebbe di vista l’asse principale che, ciascuno a suo modo, Marx, Weber e Polanyi hanno messo in evidenza: lo spiegamento di una logica generale dei rapporti umani sottomessi alla regola del profitto massimale.
Non tralasceremo a questo punto tutte le modificazioni generate nel soggetto proprio a partire dallo stesso rapporto mercificato. Marx, insieme ad altri ma forse meglio di altri, ha evidenziato gli effetti dissolutivi del mercato sui legami umani. Con l’urbanizzazione, la mercificazione dei rapporti sociali è stata uno dei fattori più potenti dell’emancipazione dell’individuo dalle tradizioni, le radici, l’attaccamento familiare e le personali fedeltà. La grandezza di Marx è stata mostrare che tale libertà soggettiva veniva al prezzo di una nuova forma di assoggettamento alle leggi impersonali e incontrollabili della valorizzazione del capitale. L’individuo liberale poteva sì, come il soggetto di Locke proprietario di se stesso, credere di godere di tutte le sue facoltà naturali, dell’esercizio libero della ragione e della volontà, poteva sì proclamare al mondo la sua irriducibile autonomia: restava pur sempre un ingranaggio dei grandi meccanismi che l’economia classica aveva cominciato ad analizzare.
Questa mercificazione espansiva ha assunto nei rapporti umani la forma generale dellacontrattualizzazione. I contratti volontari impegnano persone libere: contratti pur sempre garantiti dagli organismi sovrani si sono così sostituiti alle forme istituzio­nali dell’alleanza e della filiazione e, più in generale, alle vecchie forme della reciprocità simbolica. Il contratto è divenuto più che mai il suggello di tutte le relazioni umane. Di modo che l’individuo ha sempre più sperimentato nel suo rapporto con gli altri la propria piena e intera libertà di impegno volontario, percependo la società come un insieme di rapporti associativi tra persone dotate di diritti sacrosanti. È questo il nocciolo di quello che chiamiamo «individualismo» moderno.
Si trattava, come spiega Durkheim, di una bizzarra illusione, dal momento che nel contratto c’è sempre qualcosa di più che il semplice contratto: senza lo Stato come garante, non esisterebbe alcuna libertà personale. Ma si può anche aggiungere, con Foucault, che dietro il contratto c’è sempre qualcosa di diverso dal contratto, o ancora che dietro la libertà soggettiva c’è sempre qualcosa di diverso dalla libertà soggettiva. È una concatenazione di processi di normalizzazione e di tecniche disciplinari che costituiscono quello che potremmo chiamare dispositivo d’efficienza. I soggetti non si sarebbero mai «convertiti» spontaneamente alla società industriale e commerciale con la sola propaganda del libero scambio, né con le sole attrattive dell’arricchimento personale. Si saranno dovuti ideare e applicare, «tramite una strategia senza stratega», i modelli di educazione dello spirito, di controllo del corpo, di organizzazione del lavoro, di abitazione, di riposo e di svago che erano la forma istituzionale del nuovo ideale dell’uomo, al contempo individuo calcolatore e lavoratore produttivo. È il dispositivo d’efficienza ad aver fornito alle attività economiche le «risorse umane» necessarie, ad aver prodotto senza sosta le anime e i corpi adatti a funzionare nel grande circuito della produzione e del consumo. In una parola, la nuova normatività delle società capitaliste si è imposta tramite una normalizzazione soggettiva di un tipo preciso.
Foucault ha fornito una prima cartografia, peraltro problematica, di questo processo. Il principio generale del dispositivo d’efficienza non è tanto, come è stato detto anche troppo, un «addestramento del corpo» quanto una «gestione delle menti». O forse bisognerebbe dire che l’azione disciplinare sul corpo è stata solo un momento e un aspetto del modellamento di una certa modalità di funzionamento soggettivo. Il Panopticon di Bentham è in effetti particolarmente emblematico di tale modellamento soggettivo. Il nuovo governo degli uomini penetra fino al loro pensiero, lo accompagna, lo orienta, lo stimola, lo educa. Il potere non è più soltanto volontà sovrana, ma, come dice giustamente Bentham, si fa «metodo obliquo» o «legislazione indiretta», destinata a pilotare gli interessi. Postulare la libertà di scelta, suscitarla, costituirla praticamente, presuppone che gli individui siano guidati come da una «mano invisibile» a fare le scelte che saranno proficue per ciascuno e per tutti. Sullo sfondo di questa rappresentazione non si trova tanto un grande ingegnere, sul modello dell’Orologiaio supremo, quanto una macchina idealmente autonoma che trova in ogni soggetto un ingranaggio pronto a soddisfare i bisogni della catena complessiva. Ma l’ingranaggio bisogna fabbricarlo e mantenerlo.
Il soggetto produttivo fu il capolavoro della società industriale. Il problema non era soltanto aumentare la produzione materiale, bisognava anche che il potere si ridefinisse come essenzialmente produttivo, come uno stimolatore della produzione i cui limiti sarebbero stati definiti solo dagli effetti della sua azione sulla produzione. Questo potere essenzialmente produttivo aveva per controparte il soggetto produttivo: non solo il lavoratore, ma il soggetto che in tutti i campi della sua esistenza produce benessere, piacere, felicità. Molo presto l’economia politica ha trovato corrispondenza in una psicologia scientifica che descriveva un’economia psichica a essa omogenea. Già dal XVIII secolo meccanica economica e psico-fisiologia delle sensazioni si pro­mettono amore eterno. È questo senza dubbio l’incrocio definitivo che disegnerà la nuova economia dell’uomo governato dai piaceri e dai dolori. Governato e governabile dalle sensazioni: l’individuo considerato nella sua libertà è un irriducibile briccone, un «delinquente potenziale», un essere mosso prima di tutto dal proprio interesse. La nuova politica si inaugura con il monumento panottico innalzato alla gloria della sorveglianza di ciascuno da parte di tutti e di tutti da parte di ciascuno.
Ma perché, domanderà forse qualcuno, sorvegliare i soggetti e massimizzare il potere? La risposta veniva da sé: per la produzione della massima felicità. Intensificazione degli sforzi e dei risultati, minimizzazione delle spese inutili, è questa la legge dell’efficienza. Fabbricare uomini utili, docili nel lavoro, inclini al consumo, fabbricare l’uomo efficiente, ecco cosa si delinea, eccome, già dall’opera di Bentham. Ma l’utilitarismo classico, a dispetto del suo formidabile lavoro di demolizione delle vecchie categorie, non è venuto a capo della pluralità interna al soggetto[3] come della separazione delle sfere cui corrispondeva tale pluralità. Il principio di utilità, la cui vocazione omogeneizzante era esplicita, non è riuscito ad assorbire tutti i discorsi e tutte le istituzioni, proprio come l’equivalente generale della moneta non è riuscito a introdursi in tutte le attività sociali. È proprio il carattere plurale del soggetto e la separazione delle sfere pratiche a essere oggi in questione.
La modellizzazione della società attraverso l’impresa
Il primo passo, come si è detto, è stato l’invenzione dell’uomo del calcolo che esercita su se stesso lo sforzo di massimizzazione dei piaceri e delle pene reso necessario dall’esistenza di rapporti interessati tra gli individui. Le istituzioni servivano a formare e inquadrare i soggetti refrattari a questo tipo di esistenza e a far convergere interessi diversi. Ma i discorsi delle istituzioni, a cominciare da quello politico, erano lungi dall’essere univoci. L’utilitarismo non si è imposto come unica dottrina legittima, tutt’altro. I principi sono rimasti misti, e alla fine del XIX secolo nelle relazioni economiche hanno fatto la loro comparsa considerazioni «sociali», diritti «sociali», politiche «sociali» che hanno limitato in modo significativo la logica accumulatrice del capitale e hanno contrastato la concezione strettamente contrattualista degli scambi sociali. La costruzione degli Stati nazionali ha continuato a inscriversi nelle vecchie espressioni della tradizione legista e in forme politiche estranee all’ordine della produzione. In una parola, la norma dell’efficienza economica è stata circoscritta da discorsi difformi, la nuova razionalità dell’uomo economico è rimasta mascherata e confusa dal groviglio delle teorie.
Al contrario, il momento neoliberista è caratterizzato da un’omogeneizzazione del discorso dell’uomo intorno alla figura dell’impresa. La nuova figura del soggetto opera un’unificazione senza precedenti delle forme plurali della soggettività che la democrazia liberale tollerava e di cui sapeva servirsi all’occorrenza per perpetuare la propria esistenza.
Diverse tecniche contribuiscono ormai alla fabbricazione del nuovo soggetto unitario, che chiameremo indifferentemente «soggetto imprenditoriale» o «soggetto neoliberista», o, più semplicemente ancora, neo-soggetto[4]. Non abbiamo più a che fare con le vecchie discipline votate ad addestrare il corpo e piegare le menti con la forza per renderle più docili, metodologia istituzionale già da tempo in crisi. Il problema oggi è governare un essere la cui soggettività deve essere integralmente coinvolta nell’attività che gli è assegnata. Con questo scopo, è necessario riconoscere tra le sue parti costituenti quella irriducibile del desiderio. Le grandi professioni di fede sull’importanza del «fattore umano» che pullulano nella letteratura del neo-management devono essere lette sotto la luce di un nuovo tipo di potere: non si tratta più tanto di riconoscere che l’uomo nel lavoro resta pur sempre un uomo, che non si riduce mai allo statuto di oggetto passivo, quanto di vedervi il soggetto attivo che deve partecipare totalmente, impegnarsi pienamente, dedicare tutto se stesso all’attività professionale. Il soggetto unitario è quindi il soggetto del coinvolgimento personale completo. L’obiettivo del nuovo potere è la volontà dell’individuo di realizzarsi, il progetto che si vuole portare avanti, la motivazione che anima il «collaboratore» dell’impresa, in parole povere il desiderio, sotto tutti i nomi che gli si possono attribuire. L’essere desiderante non è solo il punto di applicazione del potere, è la propaggine dei dispositivi di controllo dei comportamenti. Perché lo scopo delle nuove pratiche di fabbricazione e gestione del soggetto è far sì che l’individuo lavori per l’impresa come farebbe per se stesso, sopprimendo così ogni sentimento di alienazione come ogni distanza tra l’individuo e l’impresa che lo assume. Egli deve migliorare la propria efficienza, intensificare i propri sforzi, come se l’autocontrollo venisse spontaneamente, come se questa con­dotta fosse imposta dall’interno dall’ordine imperioso del deside­rio a cui non c’è modo di resistere.
Le nuove tecniche dell’«impresa di se stessi» arrivano senza dubbio al colmo dell’alienazione pretendendo di sopprimere il sentimento dell’alienazione: obbedire al proprio desiderio e all’Altro che ci sussurra da dentro è la stessa cosa. In questo senso si può definire il management moderno come un governo «lacaniano»: il desiderio del soggetto è il desiderio dell’Altro. Proprio a questo tende la costruzione dei numi tutelari del mercato, dell’impresa e del denaro. Ma questo è soprattutto reso possibile da tecniche raf­finate di motivazione, incentivo e stimolazione.
La «cultura d’impresa» e la nuova soggettività
La governamentalità imprenditoriale dipende da una razionalità complessiva che trae la propria forza dal suo particolare carattere inglobante, poiché permette di descrivere le nuove aspirazioni e le nuove condotte dei soggetti, di prescrivere le modalità di controllo e influenza che devono essere esercitate su di essi nei loro comportamenti, di ridefinire gli obiettivi e le forme dell’azione pubblica. Dal soggetto allo Stato passando per l’impresa, uno stesso discorso permette di definire l’uomo per come vuole «realizzare» la propria esistenza ma anche per come deve essere guidato, incitato, formato, potenziato (empowered) per raggiungere i suoi obiettivi. In altri termini, la razionalità neoliberista produce il soggetto di cui ha bisogno servendosi dei mezzi per governarlo affinché si comporti davvero come un’entità in competizione che deve massimizzare i risultati esponendosi ai rischi da affrontare e assumendosi la totale responsabilità di eventuali fallimenti. Il governo di sé nell’era neoli­berista si chiama «impresa». E dunque il «governo di sé imprenditoriale» non coincide – anzi, è molto di più – con la «cultura d’impresa» di cui abbiamo parlato più sopra. Certo la valorizzazione ideologica del modello dell’impresa ne fa parte, certo l’impresa è presentata sempre come il luogo di maturazione dell’individuo, come l’organismo nel quale possono finalmente congiungersi il desiderio di realizzazione, il benessere materiale, il successo commerciale e finanziario della «comunità» di lavoro e il loro contributo alla prosperità generale della popolazione. Così il nuovo management ambisce a superare sul piano immaginario la contraddizione segnalata a suo tempo da Daniel Bell tra i valori edonisti del consumo e i valori ascetici del lavoro[5]. Ma cedere a tale seduzione sarebbe un grave errore. Così come la filantropia del XVIII secolo accompagnava con parole dolci la realizzazione delle nuove tecnologie di po­tere, gli argomenti umanitari ed edonisti della moderna gestione degli uomini accompagnano l’adozione di tecniche volte a produrre forme di assoggettamento nuove e più efficaci. Queste, per quanto nuove, sono impregnate della più sorda e classica delle violenze sociali caratteristiche del capitalismo: la tendenza a trasformare il lavoratore in semplice mercanzia. L’erosione progressiva dei diritti riconosciuti al lavoratore, l’insicurezza instillata poco a poco in tutti i salariati tramite le «nuove forme di occupazione» precarie, provvisorie e temporanee, la maggiore facilità del licenziamento, l’indebolimento del potere d’acquisto fino all’impoverimento di interi settori delle classi popolari, sono altrettanti elementi che hanno rafforzato considerevolmente la dipendenza dei lavoratori dai loro datori di lavoro. In un contesto di paura sociale l’adozione del neo-management nelle imprese è stata molto più facile. A questo proposito, la «naturalizzazione» del rischio caratteristica del discorso neoliberista e l’esposizione sempre più diretta dei salariati alle fluttuazioni del mercato per via dell’indebolimento delle protezioni e dei meccanismi di solidarietà collettiva, sono due facce della stessa medaglia. Riportando i rischi sui lavoratori, producendo una percezione più acuta del sentimento del rischio, le imprese hanno potuto esigere da loro una disponibilità e un impegno ben più significativi. Ciò non significa che il neomanagement non abbia nulla di nuovo, e che il capitalismo sia in fondo sempre uguale a se stesso. La grande novità sta al contrario nel modellamento con il quale gli individui vengono preparati a sopportare le nuove condizioni imposte, nel fatto che essi stessi contribuiscono con il proprio comportamento a inasprire e cristallizzare tali condizioni. In una parola, la novità sta nell’«effetto a catena» per cui i «soggetti intraprendenti», una volta prodotti, riproducono a loro volta, allargano, rafforzano i rapporti di reciproca competizione, imponendosi così, nella logica di un processo autorealizzatore, un adattamento soggettivo crescente alle condizioni sempre più dure che essi stessi hanno prodotto.
È quello che sfugge a Luc Boltanski e Ève Chiapello in Le nouvel esprit du capitalisme[6]. Analizzando l’ideologia che, secondo la loro definizione, «giustifica l’adesione al capitalismo»[7], tendono a prendere per oro colato ciò che il nuovo capitalismo stesso ha detto di sé nella letteratura manageriale degli anni Novanta. Certo va sottolineato come tale letteratura abbia recuperato un certo tipo di critica della burocrazia, dell’organizzazione e della gerarchia, servendosene per attaccare il vecchio modello di potere fondato sulla gestione di titoli, di statuti e di carriere. Ed è altrettanto importante evidenziare fino a che punto l’apologia dell’incertezza, della reattività, della flessibilità, della creatività e della rete costituisca una rappresentazione coerente, gravida di promesse, che favorisce l’adesione dei lavoratori salariati al modello «connessionista» del capitalismo.
Ma limitarsi a questi aspetti significa considerare soltanto l’immagine seduttrice e strettamente retorica delle nuove modalità di potere. Significa dimenticare che queste ultime costituiscono tramite tecniche specifiche una soggettività particolare. In una parola, sottovalutare l’aspetto propriamente disciplinare del discorso manageriale, prendendo troppo alla lettera il suo argomentario. A questa sottovalutazione corrisponde la sopravvalutazione dell’ideologia della «crescita» individuale in una tesi tutto sommato assai unilaterale, che fa derivare il «nuovo spirito del capitalismo» dalla «critica artista» sessantottina. Ora, quello che le evoluzioni del mondo del lavoro fanno emergere sempre di più, è proprio l’importanza decisiva delle tecniche di controllo nel governo delle condotte. Il neo-management non è antiburocratico. Rappresenta una fase nuova, più sofisticata, più individualizzata, più competi­tiva della razionalizzazione burocratica, e non è che per un effetto d’illusione se si è appoggiata alla «critica artista» del ’68 per assicurare il mutamento da una forma di potere organizzativo a un’altra. Non siamo usciti dalla «gabbia d’acciaio» dell’economia capitalista di cui parlava Weber. Per certi versi, si dovrebbe dire piuttosto che a ciascuno viene imposto di costruire, per conto proprio, una piccola «gabbia d’acciaio» individuale.
Il nuovo governo dei soggetti presuppone in effetti che l’impresa non sia prima di tutto una «comunità» o un luogo di crescita, ma uno strumento e uno spazio di competizione. Essa è presentata innanzitutto come luogo ideale di tutte le innovazioni, del cambiamento permanente, dell’adattamento continuo alle variazioni della domanda del mercato, della ricerca dell’eccellenza, della «perfezione». Viene così imposto al soggetto di conformarsi interiormente, con un lavoro costante su se stesso, a questa immagine: deve badare costantemente a essere il più efficiente possibile, a dimostrarsi totalmente dedito al proprio lavoro, a perfezionarsi in un continuo apprendistato, ad accettare la maggiore flessibilità richiesta dai cambiamenti incessanti imposti dal mercato. Esperto di se stesso, datore di lavoro di se stesso, inventore di se stesso, imprenditore di se stesso: la razionalità neoliberista spinge l’io a mutare per rinforzarsi e sopravvivere nella competizione. In qualsiasi attività va vista una produzione, un investimento, un calcolo dei costi. L’economia diviene disciplina personale. Margaret Thatcher ha dato la formula più trasparente di questa razionalità: «Economics are the method. The object is to change the soul»[8].
Le tecniche di gestione (valutazione, progetto, normalizzazione delle procedure, decentralizzazione) permetterebbero di oggettivare l’adesione dell’individuo alla norma di condotta che gli è imposta, di valutare tramite le griglie e gli altri strumenti di registrazione del dashboard il suo coinvolgimento soggettivo, pena sanzioni quali il licenziamento, la riduzione del salario, il rallenta­mento della carriera[9]. Sotto il totale arbitrio, naturalmente, di una gerarchia incaricata di manipolare categorie psicologiche che ga­rantirebbero l’obiettività della misura delle competenze e delle prestazioni. L’essenziale, tuttavia, non è l’attendibilità della misura, ma il tipo di potere esercitato «in profondità» sul soggetto invitato a «offrirsi senza riserve», a «superare se stesso» per l’impresa, a «motivarsi» sempre di più per meglio soddisfare il cliente, e dunque costretto, dal tipo di contratto che lo lega all’impresa e dalle modalità di valutazione a cui è sottoposto, a dimostrare il proprio coinvolgimento personale nel lavoro.
La razionalità imprenditoriale presenta l’incomparabile vantaggio di riunire tutte le relazioni di potere nella trama di un unico discorso. Il lessico dell’impresa cela in sé un alto potenziale di uni­ficazione dei diversi «regimi di esistenza», il che spiega perché i governi l’abbiano ampiamente adoperato. Permette in particolare di riallacciare gli scopi della politica portata avanti con tutte le componenti della vita sociale e individuale[10]. L’impresa non è dun­que soltanto un modello generale da imitare, ma anche una certa attitudine da stimolare nel bambino e nello studente, un’energia potenziale da sollecitare nel lavoratore, un modo di essere che è allo stesso tempo prodotto dei cambiamenti istituzionali e produttore di migliorie in tutti i campi. Stabilendo una corrispondenza strettissima tra il governo di sé e il governo delle società, l’impresa definisce una nuova etica, ovvero una certa disposizione interiore, un certo ethos da incarnare per una sorveglianza di sé che le procedure di valutazione devono rafforzare e verificare.
In questo senso si può dire che il primo comandamento dell’etica imprenditoriale è «aiutati da solo», in altre parole un’etica del self-help. Qualcuno forse puntualizzerà, giustamente, che un’etica del genere non è nuova, che si ritrova già nel capitalismo delle origini. Se ne trova la formulazione già in Benjamin Franklin e meglio ancora, un secolo dopo, in Samuel Smiles, autore del best-seller mondiale Self-Help, pubblicato nel 1859. Quest’ultimo puntava essenzialmente sull’energia dell’individuo che doveva essere lasciata più libera possibile. Ma si limitava all’etica individuale, la sola determinante ai suoi occhi. Non immaginava, allora, che il self-help potesse essere altro che una forza morale che ciascuno doveva sviluppare per sé, e soprattutto che sarebbe diventato una modalità di governo politico[11]. Era anzi convinto del contrario, fondandosi su una rigida separazione della sfera privata dalla sfera pubblica: «Il governo di fuori importa, relativamente, ben poco, al governo di dentro»[12]. La grande novità della tecnologia neoliberista sta nel mettere direttamente in relazione la maniera di «governare gli uomini» alla ma­niera dell’uomo di «governare se stesso».
Pierre Dardot, filosofo e docente, è autore, spesso insieme al collega Christian Laval, di saggi su Marx, Hegel e il capitalismo globale. Di recente pubblicazione in francese, la prestigiosa monografia Marx, prénom Karl (Gallimard 2012).
Christian Laval, sociologo, svolge attività di ricerca presso l’università di Parigi X. Dal 2004, anima insieme a Pierre Dardot il gruppo di ricerca «Question Marx».
NOTE
[1] A volercisi soffermare, si potrebbe mostrare come Lacan abbia indicato a diverse riprese nei suoi scritti e nei suoi seminari l’importanza della svolta utilitarista nella storia occidentale. Cfr. J. Lacan Scritti, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 116.
[2] Cfr. supra la discussione del punto di vista di Marcel Gauchet nel capitolo 5.
[3] Come si è visto più sopra (infra, capitolo 3, in particolare la nota 92), il pensiero di John Locke non trascura la differenziazione del soggetto in soggetto d’interesse, soggetto giuridico, soggetto religioso, ecc. A suo modo, l’influenza persistente di quest’idea, a dispetto dell’egemonia dell’utilitarismo, testimonia di una certa forma di resistenza alla sussunzione del soggetto sotto il regime esclusivo dell’interesse.
[4] Riprendiamo in un’accezione personale il neologismo proposto da Jean-Pierre Lebrun nel suo La Perversion ordinaire. Vivre ensemble sans autrui, Denoël, Paris 2007.
[5] D. Bell, The Cultural Contradictions of capitalism, Basic Books, New York 1976; trad. it parziale in D. Bell – R. Boudon, Le contraddizioni culturali del capitalismo, BDL, Torino 1978, «L’economia della famiglia pubblica», pp. 6-93.
[6] L. Boltanski – È. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, cit.
[7] Ivi, p. 42.
[8] «Sunday Times», 7 maggio 1988 (il corsivo è nostro).
[9] Un certo numero di ricerche hanno insistito in particolare sugli strumenti di gestione volti a fondare l’abnegazione dei lavoratori dipendenti alle esigenze dell’impresa su meccanismi di identificazione, interiorizzazione e colpevolizzazione. Il management di progetto è una maniera «morbida» di imporre al dirigente e al salariato in generale di provare costantemente la loro fedeltà e il loro rispetto delle aspettative di prestazione. Cfr. ad esempio D. Courpasson, Régulation et gouvernement des organisations. Pour une sociologie de l’action managériale, «Cahiers de recherches», Groupe ESC Lyon, 1996, e L’Action contrainte.Organisations libérales et domination, PUF, Paris 2000.
[10] Cfr. N. Rose, Inventing Ourselves. Psychology, Power and Personhood, Cambridge Uni­versity Press, Cambridge 1996, p. 154.
[11] S. Smiles, Aiutati che Dio t’aiuta!, trad. it. F. Verdinois, Avitabile, Napoli 1912. L’argo­mento è così riassunto nella prefazione all’edizione francese: «Nella vita, il benessere e la felicità individuali sono sempre dovuti ai nostri sforzi, alla cura più o meno diligente che mettiamo nel coltivare, disciplinare, controllare le nostre attitudini, e soprattutto all’one­sto e coraggioso compimento del dovere, che è la vera gloria del carattere individuale».
[12] Ivi, p. 4.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.