La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

domenica 30 marzo 2014

La canzone dei vecchi amanti della politica

da MicroMega

La canzone dei vecchi amanti della politica


di Pierfranco Pellizzetti


«Bien sûr nous eûmes des orages,
vingt ans d’amour, c’est l’amour fol»
Jacques Brel (La chanson des vieux amants)

«La politica è la sessualità degli intellettuali»
Anonimo

L’amore per la politica è un fatto generazionale? Sarei indotto a pensarlo, mettendo a confronto le tesi dell’ultimo saggio di Valerio Romitelli ("L’amore della politica", Mucchi Editore, Modena 2014), classe 1948, e le mie personali convinzioni di baby boomer 1947. Con un di più, a fare le differenze: l’elemento biografico, che influenza le rispettive concettualizzazioni. Felsinee le sue radici, genovesi le mie; oggi stimato docente di politologia l’uno, invecchiato ribaldo sempre in cerca dell’Isola che non c’è di Peter Pan l’altro (io, naturalmente).
Dunque, una questione anche di rimembranze…

Da studentello mi procuravo le opportune paghette come promotore di prodotti per arti grafiche e una delle mie “piazze” era proprio “la rossa” Bologna, tale non solo per le prevalenze cromatiche nella sua architettura urbana, tendenti al mattone, ma anche in quanto enclave di orientamenti politico-amministrativi in controtendenza rispetto all’Italia “biancofiore” (democristiana) di allora; estrema marca occidentale del mondo diviso dalla Guerra Fredda. Di certo propensioni geopolitiche del tutto diverse da quelle imperanti in una Genova borghese, che con il city-boss Paolo Emilio Taviani aveva precocemente impastoiato/normalizzato la classe operaia e il Partito Comunista nelle ragnatele di potere DC; funzionali all’intorpidimento nell’ordine atlantico.

Che questo luogo fosse la capitale della via emiliana a Est, me lo faceva notare già la targa stradale dove mi avviavo appena uscito dalla stazione: via Stalingrado (sede di una cooperativa di tipografi del Partito Comunista locale). Me lo ribadivano i copricapo da mugik dei tanti ciclisti che incontravo cammin facendo. Per non parlare del dato climatico: il freddo siberiano, che d’inverno sovente ti agghiaccia in quella città per il resto così calorosamente cordiale e accogliente (anche se oggi la direi intristita; almeno dopo il passaggio dalle sue parti di Sergio Cofferati…).

Un luogo – dunque – dove si coltivava una visione del mondo irriducibile alla vulgata normalizzatrice insita nell’americanizzazione a marce forzate dell’Italia; che faceva scorgere con assoluta nettezza gli aspetti contraddittori insiti in una rappresentazione fortemente hollywoodiana e intrinsecamente fumettistica, con i buoni a stelle-e-strisce che si battono per la Democrazia e la Libertà, contro i biechi agenti (secondo prammatica baffuti e dal naso adunco) di Imperi del Maleante litteram (ante Reagan).

Qui – invece – l’ambiente secerneva umori intellettualmente antagonistici, i cui residui retaggi ora mettono in condizione Romitelli di individuare il senso vero dell’operazione epocale messa in campo quando i contrappesi militari e politici sono saltati e un player dell’ordine bipolare si è trovato nella condizione di unico giocatore in campo: gli Stati Uniti, a fronte dell’Unione Sovietica che andava dissolvendosi; dopo il fatidico 1989 del crollo di un muro a Berlino.

Ossia lo scarto laterale d’epoca raccontato come il trionfo della Libertà e della Democrazia (con relativa “fine della Storia”), quando – in effetti – era solamente l’apoteosi di un Capitalismo che si liberava dai vincoli del Welfare, dalla necessità di conquistarsi e mantenere il consenso sociale (attraverso il cosiddetto patto keynesiano-fordista, ormai accantonato), per innestare il turbo allo scopo di una sua riproduzione sempre più sfrenata: la stagione della finanziarizzazione globalizzata, in cui si liquidavano le mitezze e le solidarietà newdealistiche prosciugando l’area mediana della società; a vantaggio delle nuove plutocrazie che ora controllano rendite posizionali (l’alleanza sistemica tra il potere del denaro e il potere regolativo del governo, per quello che David Harvey definisce “accaparramento mediante spoliazione”). Appunto, operazioni possibili solo in quanto ci si è liberati di ogni minaccia incombente, che imponeva più miti consigli alla tracotanza del Potere riequilibrandone le pretese egemoniche: una classe lavoratrice battagliera e organizzata sindacalmente all’interno, un nemico mortale (ma non troppo…) all’esterno.

In questo gioco di spinte e controspinte risultava essenziale il ruolo della politica come discorso pubblico permanente attorno alle scelte collettive. Quella politica che nella desertificazione delle arene competitive/conflittuali diventa un orpello di nessuna utilità. Per dirla con il lessico della fisica, nello scivolare della dinamica sociale in una condizione statica.

Questo risulta chiarissimo (e convincente) nella riflessione del saggio di cui si parla. Semmai non altrettanto condivisibile – almeno agli occhi critici di un vecchio liberale piantagrane – risulta il giudizio idealizzato sull’essenza intima di tali contrappesi. Indubbiamente Giuseppe Stalin e Mao Tse-tung sono stati formidabili deuterantagonisti sulla scena mondiale novecentesca, in un sistema-Mondo che si riposizionava sulla centralità americana. Da qui a trasformarli in “cavalieri dal bianco destriero”, in eroi senza macchia e senza paura francamente ce ne corre. Così come equiparare le autocrazie orientali alle società (simil)aperte dell’Occidente; certamente sottoposte alle avide priorità del Capitalismo, ma che – in ogni caso – mantengono in funzione rudimenti di pluralismo tali da schiudere spazi critici per ulteriori smascheramenti e controlli del Potere. Altrove impensabili.

Ad abundantiam, lascia perplessi la contabilità dell’orrore totalitario che tende a distinguere formalisticamente tra lager e gulag: sempre di realtà disumanizzanti si tratta. Possiamo dirlo? Nel Totalitarismo seppure di sinistra – e nonostante il richiamo di maniera alle “democrazie popolari”, quali quella cinese e quella sovietica – il Potere illimitato dei Capi supremi è in condizione di massacrare ogni barlume di dignità e dissenso più e meglio che altrove. Come regolarmente è avvenuto. E le mistiche con cui ammanta la sua vera natura hanno un solo nome: propaganda.

L’amore per i Piccoli Padri o i Grandi Timonieri/Nuotatori è una forma di regressione di stampo mistico religioso, che produce revival di antichi fanatismi: dalle Sante Inquisizioni alle cacce alle streghe. Incubi da “Buio a mezzogiorno” nella “Fattoria degli animali” e senza avere a disposizione qualsivoglia “Uscita di sicurezza”. Come nel secolo scorso ci hanno ampiamente illustrato gli Arthur Koestler, i George Orwell, gli Ignazio Silone.

A tale proposito, chi scrive ritiene che la politica non abbia alcun bisogno di mistiche salvifiche sotto forma di cieco innamoramento; semmai debba recuperare la dimensione processuale della sua essenza positivamente competitiva/conflittuale.
La convinzione di stare attivamente dalla parte “illuminata” della Storia umana contro il lato oscuro, in cui ci si impegna per valorizzare la Dignità e perseguire la Giustizia; quanto si potrebbe dire costituisca l’essenza della Libertà. Sapendo già dal tempo della Rivoluzione Francese che la società è materia plastica; dunque progettabile e malleabile. E proprio per questo motivo altri potrebbero essere gli eroi di una politica che ritrovi le proprie ragioni di essere. In un quadro generale dove iniziano ad appalesarsi nuovi contrappesi al Potere incontrollato delle oligarchie: l’indignazione di massa nell’area centrale del Mondo, il rifiuto montante delle rinnovate forme schiavistiche di sfruttamento in quelle periferiche.

Così – tanto per dire – anche l’autore di queste note propone i suoi eroi novecenteschi; tra loro diversissimi eppure accomunati da un forte approccio etico al proprio tempo e alla società: Jean Moulin, il prefetto inviato dal generale de Gaulle nell’Esagono occupato dai tedeschi a organizzare France Libre e morto a Lione sotto tortura nazista per non aver voluto tradire la Resistenza; Bertrand Russell, l’aristocratico liberale critico, propugnatore di tolleranza civile contro le cecità del conformismo; Paolo Borsellino, indomito combattente per la Legalità, pur consapevole dei rischi mortali cui andava incontro.

Grandi tempre morali, che ispirano un’idea alta della politica. In questi anni liquefatta e disciolta nell’alluvione comunicativa. Di cui Romitelli mette in evidenza gli effetti gravemente diffusivi di apatia. E ipotizza persino i momenti di svolta che hanno ridotto la canzone della politica al brusio ridondante della comunicazione, negli anni di ferro e di fuoco del secondo conflitto mondiale: «non è certo un caso se la macchina di Turing, inventata per decriptare il codice Enigma dei nazisti, sarà un punto di partenza delle ricerche da cui uscirà la ‘rivoluzione informatica’. Né meno significativo che il Comintern in questi anni si trasformi in Cominform». Singolari notazioni, in un saggio ricco di osservazioni dal sapore latamente biografico; indubbiamente tratte da una lunga, appassionata, storia d’amore con la politica.

Valerio Romitelli, L’amore della politica, Mucchi Editore, Modena 201
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