La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

mercoledì 29 giugno 2011

La favola di Pianaccio

 
Articolo 21 - Sguardi sul mondo
La favola di Pianaccio
La favola di Pianaccio (Sull’Appennino tosco-emiliano con la famiglia Biagi)
Anche quest’anno, il 25 giugno, si è svolta a Pianaccio la cerimonia del Premio giornalistico dedicato a Enzo Biagi, giunto alla terza edizione. Il prestigioso riconoscimento è andato a Stefano Rotta, giovane cronista lodigiano della “Gazzetta di Parma”, autore di alcuni articoli dedicati all’Appennino.
Ci siamo trovati tutti lì, nel giardino della Casa della Cultura Enzo Biagi, proprio davanti alla casa in cui Biagi è nato e in cui tornava tutte le estati, per ritrovare le atmosfere e i sogni, le speranze e le illusioni dell’infanzia.
Sul muro della Fondazione Biagi campeggia una frase di “Nonno Enzo” che ti si imprime nella mente: “Ho girato il mondo da cronista, ma in fondo non sono mai andato via da Pianaccio”.
Se volete davvero comprendere lo spirito di Biagi, dovete dimenticarvi per un attimo del grande giornalista che intervista i potenti del mondo e riesce a farsi dare del “lei” dalla politica, e dovete dimenticarvi anche della battaglia contro l’“editto bulgaro” e di tutto ciò che da esso è conseguito. Se volete comprendere chi fosse Enzo Biagi, dovete venirlo a cercare qui, in questo lembo di Appennino in cui la Toscana comincia a diventare Emilia ma l’Emilia non si è ancora stancata di essere Toscana.
Infatti, raccontava proprio Biagi in un suo libro, “quando uno sta proprio male, e si sa che non c’è più niente da fare, le campane suonano con lenti rintocchi; la gente si segna e dice: <>”.
Venendo qui, ho capito che ha perfettamente ragione Francesco Guccini quando afferma che “l’Appennino genera rispetto. Le Alpi, con le loro cime aguzze, incutono timore. La differenza tra gli animali totemici dei due territori parla da sé: quello dell’Appennino è il cinghiale, una specie di porco con le zanne che grufola nel fango, mentre le Alpi hanno la nobilissima aquila, il leggiadro camoscio. Le Alpi toccano il cielo, sono iperuranie e spirituali. L’Appennino è più basso, terragno, spurio”.
Non riesco a immaginare parole migliori di quelle del cantautore di “Amerigo” e di tanti altri capolavori per descrivere Nonno Enzo, con quella sua ruvida e burbera dolcezza, quella sua straordinaria umanità, quel suo carattere intenso, profondo, straordinariamente sincero che ti portava a conoscerlo e a volergli bene come a uno di famiglia anche se – come me – non hai mai avuto la fortuna di incontrarlo.
Ho “scarpinato”, come diceva lui, e tanto, per raggiungere Pianaccio: su e giù per sentieri strettissimi, fra tornanti e rocce che da un momento all’altro sembrava volessero staccarsi dal costone, con il sottofondo tetro, a tratti vagamente inquietante, del torrente che scorreva in fondo alla valle.
Ho osservato da vicino i boschi e le gole in cui è stato partigiano, ho conversato a lungo con alcuni suoi compaesani e ho capito molte cose che prima non sapevo e neanche immaginavo di quella complessa gente di montagna che non nega il saluto a nessuno e dà sempre l’impressione di tenderti una mano.
Avevamo percorso circa due chilometri dei quattro che separano Lizzano in Belvedere, dove alloggiavamo, da Pianaccio, quando io e papà pensavamo di tornare indietro a causa del terreno sempre più impervio e scosceso, ma proprio in quel momento è passata in auto una gentile signora che ci ha accompagnato fin su a Pianaccio, lasciandoci davanti alla casa di Biagi dove figlie e nipoti stavano mettendo a punto gli ultimi preparativi in vista della grande festa dell’indomani.
Era venerdì pomeriggio, il cielo non lasciava presagire nulla di buono e, dopo aver salutato con affetto i familiari del Nonno, con papà avevamo deciso di tornarcene in albergo e riposare un po’.
Stavamo per scendere a cena quando trovo sul cellulare un messaggino di Menni, Marina, la nipote, che invitava me e papà “a mangiare un boccone” insieme a loro, come se fossimo davvero persone di famiglia.
È andata così anche l’indomani; anzi, appena siamo arrivati su per il premio, Menni mi ha pure gentilmente “sgridato” per il fatto di non esserci presentati a pranzo dove invece ci attendevano a nostra insaputa, dando ormai per scontata la nostra familiarità.
Ho scattato parecchie foto, ma una su tutte la conservo caramente: l’albero dai fiori bianchi, il “ciliegio selvatico che fiorisce a primavera, cresciuto accanto alle robinie, nell’orto”. Anch’io, come il Nonno, mi sono chiesto chi avrà gettato il seme: forse un merlo, forse il vento, chissà.
So soltanto che quel libro meraviglioso, “L’albero dai fiori bianchi” per l’appunto, è stato il conforto di mia madre nei lunghi mesi in cui è stata ricoverata in ospedale quando io avevo appena sei anni.
Non dimenticherò mai l’emozione che ho provato quando Carla, la secondogenita del Nonno, mi ha portato a visitare lo studio in cui scriveva: una piccola stanza ricca di poesia dove l’unica nota stonata era un computer portatile: oggetto misterioso al quale il Nonno non si sarebbe mai neanche avvicinato.
Quante parole, quante riflessioni, quanti articoli saranno nati in quella stanzetta! Ogni scrittore ha un suo luogo dell’anima, quella casetta rustica di Pianaccio era senz’altro il più amato dal Nonno, a pochi passi dal camposanto dove oggi riposa non lontano dalla moglie Lucia e, purtroppo, dall’ultima figlia Anna, morta nel 2003.
C’era la RAI, o quel poco che ne rimane, con i compagni di mille viaggi e di infinite avventure Loris Mazzetti, Annarosa Macrì e Nevio Casadio, c’era il maestro Sergio Zavoli (un altro degli incontri che non scorderò mai) e tanti giornalisti o semplicemente amici del Nonno e della sua famiglia, tra cui la mitica segretaria Pierangela Bozzi (per tutti la Pier) e il partigiano Checco Berti, compagno di Biagi nelle brigate di “Giustizia e Libertà” durante la Resistenza.
E c’erano, infine, i giovani; tanti giovani, giovani cronisti, giovani con i volti puliti e la schiena dritta per cui Biagi era, come per me, il Nonno cui chiedere un consiglio, certi che non ce l’avrebbe mai negato.
Diceva Biagi, con l’umiltà di chi è davvero grande: “Dai giovani, anche alla mia età, c’è sempre da imparare”.
Abbiamo imparato noi, caro Nonno, ancora una volta. Abbiamo ripassato con gioia la tua lezione di dignità e di semplicità, il tuo essere vicino ai problemi della gente comune, il tuo essere semplice, spontaneo, cronista anche quando molti ti consideravano ormai un’“opinion maker”.
In conclusione, lasciatemi riferire un colloquio privato che ho avuto con il Nonno, simile a quelli di don Camillo con il Cristo dell’altar maggiore.
“Caro Nonno – gli ho detto in confidenza – hai visto come siamo messi male in questo Paese in cui tutto cambia ma nulla sembra mai cambiare veramente?”.
E la sua risposta è stata nel solco della tradizione: “Robertino, ricordati che in questo Paese c’è una categoria che, purtroppo, non passa mai di moda: i ciarlatani. L’importante è non chinare la testa”.
Non la chineremo, Nonno, te lo prometto, non ci arrenderemo. E torneremo tutti qui il prossimo anno, in questo paesino sperduto tra i monti che tu definivi “una favola” e lo è veramente, sperando che qualche ciarlatano sia passato di moda.
P.S. Dedico questo articolo al direttore di RaiTre Paolo Ruffini, uno dei dirigenti RAI che più si è battuto per riportare Biagi in televisione, colpito in questi giorni dalla scomparsa del padre Attilio.
Roberto Bertoni

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