La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

giovedì 19 giugno 2014

da il manifesto
CULTURA

Le bonifiche innaturali

Scaffale. Il libro «L'Italia dei disastri» ripercorre la storia delle catastrofi avvenute nel nostro paese, a causa della mancata prevenzione e dello sfruttamento dissennato del territorio

All’infuori dei Paesi Bassi, che hanno dovuto strap­pare tanta parte del loro ter­ri­to­rio al Mare del Nord, non esi­ste in Europa un paese più arti­fi­ciale dell’Italia. Arti­fi­ciale nel senso che gli uomini hanno dovuto sovrap­porre i loro arte­fatti al sostrato natu­rale ori­gi­na­rio per potervi vivere. E non mi rife­ri­sco solo a quella «patria arti­fi­ciale» che Goe­the indi­vi­duava nelle son­tuose rovine romane, testi­mo­nianze di una colo­niz­za­zione senza pre­ce­denti del suolo ita­lico. Ma anche a qual­cosa di più antico e pro­fondo.
Troppo pre­co­ce­mente, infatti, la Peni­sola si è riem­pita di popo­la­zioni rispetto alla sua «matu­rità» geo­lo­gica. Gran parte delle nostre terre emerse risal­gono solo a un miliardo di anni fa, ci ricor­dano i geo­logi, una gio­vi­nezza che dà la feb­bre al nostro suolo, con ben 4 vul­cani attivi, e una sequela senza fine di ter­re­moti di varia potenza e distrut­ti­vità. Ma a ren­dere biso­gnoso di arte­fatti il nostro ter­ri­to­rio, oltre alla sua gio­vi­nezza geo­lo­gica, con­tri­bui­sce la sua mor­fo­lo­gia. La nostra più grande pia­nura, la valle del Po, è un immenso catino in cui pre­ci­pi­tano cen­ti­naia di corsi d’acqua dall’imponente bar­riera delle Alpi. È il più com­plesso sistema idro­gra­fico d’Europa, a cui le popo­la­zioni hanno dovuto dare ordine con un lavoro oscuro durato mil­lenni. Ancora nel XIX secolo alcuni inge­gneri idrau­lici ricor­da­vano che il Po del loro tempo, con il suo corso uni­ta­rio e rela­ti­va­mente ordi­nato, era «opera degli uomini». Una costru­zione arti­fi­ciale, dun­que, il risul­tato di una lotta delle popo­la­zioni che hanno dovuto talora per più gene­ra­zioni fare i conti con allu­vioni disa­strose. Come la «rotta di Fica­rolo» nel XIII secolo, che scon­volse buona parte della bassa pia­nura padana per alcuni secoli.
Ma l’Appennino, un vero e pro­prio caos sotto il pro­filo della com­po­si­zione geo­lo­gica, incombe su tutto lo sti­vale penin­su­lare. Come scri­veva nel 1919 un gran com­mis d’etat, Meuc­cio Ruini, «con­torno e rilievo, clima, abi­ta­bi­lità e comu­ni­ca­zioni, rela­zioni sto­ri­che, ogni cosa insomma della Ita­lia peni­su­lare è signo­reg­giata dall’Appennino e ne riceve l’impronta». E que­sta impronta ha pesato in maniera rile­vante non solo sulle col­line interne, dove si sono con­cen­trate le eco­no­mie ita­li­che e ita­liane, ma anche lungo le pia­nure costiere, impa­lu­date e ridotte a maremme dai mate­riali appen­ni­nici tra­sci­nati a valle dai tor­renti. L’Italia moderna è il risul­tato di una immensa, seco­lare, tota­li­ta­ria boni­fica dei suoi assetti natu­rali.
Posso por­tare in pro­po­sito – al di là di quello che la ricerca sto­rica ci rac­conta – una testi­mo­nianza sin­go­lare. Quando nei primi anni ’80 ho stu­diato la vicende delle boni­fi­che ita­liane – per un testo curato insieme a Man­lio Ros­sia Doria, edito poi da Laterza – ho tro­vato le mie più ori­gi­nali fonti docu­men­ta­rie nelle rela­zioni degli inge­gneri impe­gnati sul campo in que­sto o quel lavoro di boni­fica. Sia che si trat­tasse di lavori nel Bolo­gnese o nella valle del Tevere o nella piana del Vol­turno, nel XVIII o nel XIX secolo, chi pia­ni­fi­cava gli inter­venti si sen­tiva in obbligo di far pre­ce­dere il pro­prio pro­getto con una una pre­messa sto­rica sugli inter­venti che in quello stesso sito erano stati rea­liz­zati uno o due secoli prima da altri boni­fi­ca­tori. Una fonte pre­ziosa di infor­ma­zione sto­rica e insieme la prova di una tra­sfor­ma­zione inin­ter­rotta del ter­ri­to­rio attra­verso suc­ces­sive gene­ra­zioni.
Per ren­dere abi­ta­bili le terre, per esten­dere i suoli desti­nati alla col­ti­va­zione, per trac­ciare strade e vie di comu­ni­ca­zione le nostre popo­la­zioni hanno dovuto costan­te­mente tra­sfor­mare l’habitat natu­rale, per­ché esso tende natu­ral­mente al disor­dine idrau­lico e al caos dei pro­cessi ero­sivi. Dun­que, il nostro è un Paese dove, più che altrove, le popo­la­zioni devono fare costan­te­mente manu­ten­zione del suolo, altri­menti gli equi­li­bri pre­ci­pi­tano. Una con­di­zione neces­sa­ria che si è resa sto­ri­ca­mente pos­si­bile gra­zie alla pre­senza seco­lare dei con­ta­dini sulla terra, in virtù del loro essere manu­ten­tori del suolo, oltre che pro­dut­tori di der­rate agri­cole. Una con­di­zione, com’è noto a tutti, che oggi non si dà più.
Il nostro ter­ri­to­rio è rima­sto abban­do­nato, in balia delle forze natu­rali che ten­dono al disor­dine idrau­lico. Non solo. La sto­ria ci ricorda la fra­gi­lità della cro­sta ter­re­stre su cui viviamo. Negli ultimi 100 anni abbiamo subìto in media un disa­stro sismico ogni 4–5 anni e dun­que abbiamo dovuto inve­stire costan­te­mente risorse nella rico­stru­zione di abi­tati e città. Anche i ter­re­moti ci costrin­gono costan­te­mente a ritor­nare sui nostri passi, a rifare i nostri arte­fatti su una natura insta­bile.
Ma forse la cata­strofe più grave il nostro paese l’ha subita a par­tire dalla fine della seconda guerra mon­diale. Col pas­sare dei decenni, per arri­vare ai nostri anni, è venuta affer­man­dosi una classe diri­gente fra le più incolte, irre­spon­sa­bili e pre­da­to­rie della nostra sto­ria. Il suolo è diven­tato occa­sione di pro­fitti, merce da immet­tere sul mer­cato. Una cemen­ti­fi­ca­zione illi­mi­tata e cre­scente, magni­fi­cata talora con la reto­rica della Grandi opere, rende il ter­ri­to­rio del Bel Paese – che avrebbe biso­gno di risorse e manu­te­zione costante, ali­men­tate dalla con­sa­pe­vo­lezza sto­rica dei suoi dram­ma­tici carat­teri ori­gi­nali – un luogo di disa­stri e spese senza fondo a fine di ripa­ra­zione.
Ci ricorda ora que­sta con­di­zione, con gran­dis­simo merito, il libro a cura di Ema­nuela Gui­do­boni e Gian­luca Valen­sise, L’italia dei disa­stri. Dati e rifles­sioni sull’impatto degli eventi natu­rali. 1861–2013 (Bup), Isti­tuto Nazio­nale di Geo­fi­sica e Vul­ca­no­lo­gia. I cura­tori che, nel 2011, ave­vano dato un impor­tante con­tri­buto al cen­te­na­rio dell’Unità con Il peso eco­no­mico e sociale dei disa­stri sismici in Ita­lia negli ultimi 150 anni, ora ritor­nano sul cen­te­na­rio con una rico­stru­zione che rac­chiude un po’ tutti gli eventi cata­stro­fici che hanno col­pito la Peni­sola. Nel testo, oltre a loro scritti, ospi­tano un largo ven­ta­glio di stu­diosi che si è cimen­tato con una seria ricerca storico-scientifica sugli eventi più dispa­rati: le allu­vioni del Tevere e della Nera (P.Camerieri e T.Mattioli); di Roma nel 1870 (M:Aversa), le allu­vioni e le frane dal dopo­guerra a oggi (G.Botta); il Vajont ( G. B.Vai); le inon­da­zioni del Po dal 1861(F. Luino), l’indagine sulle frane alla luce degli eventi estremi e le aggres­sioni antro­pi­che (M. Amanti); le eru­zioni del Vesu­vio dal 1861 al 1944 ( G.P.Ricciardi) ; i ter­re­moti distrut­tivi (E.Guidoboni e G. Valen­sise). Ma l’elenco è più lungo di que­sti radi cenni.
I cura­tori, che hanno alle spalle studi rile­vanti sulla sto­ria dei ter­re­moti, non solo ita­liani, met­tono il peso della loro com­pe­tenza e di quella dei nume­rosi scien­ziati che col­la­bo­rano al volume, nel dibat­tito cor­rente sulle allu­vioni disa­strose degli ultimi anni. E mostrano verità assai poco dubi­ta­bili, anche se esse tar­dano a diven­tare cul­tura dif­fusa, poli­tica lun­gi­mi­rante del ceto poli­tico. Pro­ba­bil­mente, il carat­tere della pio­vo­sità in Ita­lia, sotto il pro­filo quan­ti­ta­tivo, non è mutato sen­si­bil­mente. Que­sto sem­brano dire le sta­ti­sti­che sto­ri­che. Ma forse è mutata l’intensità e la con­cen­tra­zione tem­po­rale delle pre­ci­pi­ta­zioni. È un punto ancora incerto e su cui è aperta la discus­sione.
Per il resto, la vicenda recente dei nostri paesi che fra­nano e delle città che fini­scono sott’acqua costi­tui­sce la con­ferma a una verità sto­rica: l’Italia, paese fra­gile, aggre­dito non solo da pres­sioni antro­pi­che, ma anche da mire spe­cu­la­tive, fune­stato da fre­quenti ter­re­moti, ha una strada obbli­gata davanti a sé. È quella della pre­ven­zione. Pre­ven­zione e cura del ter­ri­to­rio, la stessa che per secoli ha per­messo all’Italia di ospi­tare una popo­la­zione cre­scente, eco­no­mie dif­fuse, di fon­dare la sua civiltà.

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