La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

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Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

domenica 1 giugno 2014

Tankizaki, labirinto filologico come sfida al lettore

da il manifesto
ALIAS DOMENICA

Tankizaki, labirinto filologico come sfida al lettore

Sotto la foresta delle citazioni esplode la potenza della tradizione culturale erudita: un romanzo uscito a puntate, 1949-’50 . «LA MADRE DEL COMANDANTE SHIGEMOTO» DI TANIZAKI JUN’ICHIRO

Il Museo d’arte moderna della pre­fet­tura di Shiga, nei pressi di Kyoto, custo­di­sce alcune tavole di una bel­lezza discreta e tur­bante: sono gli ori­gi­nali delle illu­stra­zioni di La madre del Coman­dante Shi­ge­moto (tra­du­zione dal giap­po­nese di Andrea Mau­rizi, Einaudi «Let­ture», pp. XVIII-166, euro 18,00), un romanzo di Tani­zaki Jun’ichiro pub­bli­cato a pun­tate sul quo­ti­diano Mai­ni­chi tra il novem­bre del 1949 e il marzo del 1950. L’autrice delle tavole è Ogura Yuki, espo­nente della scuola giap­po­nese (nihonga) e allieva del grande Yasuda Yuki­hiko, che a sua volta era un buon amico di Tani­zaki. Il tratto di Ogura è deli­cato, dise­gna figure fles­suose e imper­scru­ta­bili che si sta­gliano nette su sfondi can­didi o si nascon­dono die­tro gli infi­niti veli grigi della sera. Arti­sta rispet­tosa delle regole com­po­si­tive del nihonga, cui seppe tut­ta­via con­fe­rire un gusto moderno nella scelta dei sog­getti, per La madre del Coman­dante Shi­ge­moto Ogura si ispirò ai rotoli illu­strati di opere del periodo Heian (794‑1185), lo stesso in cui il romanzo è ambien­tato.
Il gioco delle dis­sol­venze asse­conda docil­mente il disve­larsi di una trama sofi­sti­cata e piena di azzardi, sem­pre sospesa tra pas­sato e pre­sente, realtà e imma­gi­na­zione, sto­rio­gra­fia e rac­conto. Una delle com­po­nenti cru­ciali della poe­tica di Tani­zaki è infatti la rie­la­bo­ra­zione imma­gi­ni­fica – e tal­volta visio­na­ria – della tra­di­zione cul­tu­rale giap­po­nese. Qui, come in Yoshino (1931) e in Vita segreta del signore di Bushu (1932), due esempi scelti tra i libri dispo­ni­bili in ita­liano, l’autore con­fe­ri­sce al pro­prio inte­resse per i testi anti­chi una forma ibrida, a metà tra fin­zione nar­ra­tiva e falso filo­lo­gico, e esprime già nell’incipit la sua ambi­guità: «Que­sto rac­conto trae ori­gine dalle vicende del cele­bre esperto delle vie dell’amore, Heiju». Il nar­ra­tore si pro­pone come depo­si­ta­rio di una sto­ria, di un «rac­conto», e invita il let­tore a seguirlo nel fami­liare gioco della fic­tion; il rife­ri­mento a Heiju, tut­ta­via, intro­duce sin da subito un ele­mento pro­ble­ma­tico, poi­ché rimanda a una figura ricor­rente nelle cro­na­che del periodo Heian, il fun­zio­na­rio di corte noto per le sue innu­me­re­voli avven­ture sen­ti­men­tali. Alcune cita­zioni inter­ven­gono però subito a ali­men­tare l’impressione di tro­varsi di fronte a una let­tura tutt’altro che con­ven­zio­nale e ras­si­cu­rante: il per­so­nag­gio di Heiju viene prima pre­sen­tato attra­verso un passo della Sto­ria di Genji (ca. 1000) e poi descritto a par­tire da vari altri testi che par­lano di lui. Sve­stiti i panni del roman­ziere, il nar­ra­tore sem­bra ormai per­fet­ta­mente a pro­prio agio in quelli del filo­logo. Si muove con disin­vol­tura tra poe­sia e prosa Heian, rin­via all’aneddotica clas­sica e ai testi del canone bud­d­hi­sta: col­tiva, insomma, quella che nella pre­fa­zione all’edizione ita­liana Gior­gio Ami­trano defi­ni­sce «una fore­sta di cita­zioni» fitta, labi­rin­tica e in appa­renza inter­mi­na­bile.
Tani­zaki nutriva verso la cul­tura tra­di­zio­nale del Giap­pone un inte­resse pro­fondo e eru­dito, e lo dimo­strano tra l’altro le sue ver­sioni in lin­gua moderna pro­prio dellaSto­ria di Genji, a cui lavorò ini­zial­mente sul finire degli anni trenta, poi subito dopo la pub­bli­ca­zione della Madre del Coman­dante Shi­ge­moto e infine nel 1965, poco prima di morire. Que­sta opera, così coe­rente al suo discorso nar­ra­tivo da andare ormai anche sotto il nome di Tani­zaki Genji, è un sag­gio mira­bile dell’originalità intrin­seca al rap­porto dello scrit­tore con i mate­riali clas­sici. Tani­zaki ha attri­buito al «suo» Genji, anche gra­fi­ca­mente, l’aspetto di una tra­du­zione anno­tata, impron­tata al mas­simo rigore filo­lo­gico; ma è solo una impres­sione: le glosse sono quasi sem­pre incom­plete, vaghe, e, lungi dal rispon­dere alle fina­lità di un vero appa­rato cri­tico, si limi­tano tutt’al più a sug­ge­rire al let­tore una indi­ca­zione di rotta. È evi­dente, dun­que, che Tani­zaki ci coin­volge in un gioco, ci sfida a seguirlo nel labi­rinto e mette alla prova la nostra sen­si­bi­lità. Nella Madre del Coman­dante Shi­ge­moto, il «rac­conto» è la somma di un cor­pus di fonti veri­fi­ca­bili (tutte tranne una) sapien­te­mente con­cer­tate sotto la guida di una imma­gi­na­zione ine­sau­ri­bile e di una padro­nanza per­fetta della costru­zione nar­ra­tiva. Se tanti scrit­tori, cri­tici e stu­diosi – Masa­mune Haku­cho, tra gli altri – hanno rite­nuto que­sto romanzo un’opera mae­stra di Tani­zaki, se ne hanno sot­to­li­neato la den­sità in ter­mini di rimandi alle diverse costel­la­zioni che com­pon­gono il suo uni­verso let­te­ra­rio, è per­ché con­tiene tutti i temi a lui più cari e li pre­senta come un orga­ni­smo con­chiuso e armo­nico. La com­pli­cata rete di cita­zioni, che in un primo momento pare voler inti­mi­dire e respin­gere il let­tore, si rivela ben pre­sto l’intelaiatura stessa della vicenda di Shi­ge­moto, e la dis­se­mina di sfu­ma­ture sem­pre nuove attra­verso il mec­ca­ni­smo più pre­zioso che un’opera let­te­ra­ria possa inne­scare: quello delle asso­cia­zioni, delle cor­ri­spon­denze, il richiamo empa­tico che mette in comu­ni­ca­zione chi legge con ciò che è rac­con­tato.
Quando la potenza imma­gi­na­tiva irrompe e dis­sipa il sospetto di tro­varsi di fronte a un eser­ci­zio di rigore filo­lo­gico, il let­tore ritrova (o sco­pre, se li sta incon­trando per la prima volta) motivi e stili tipici di Tani­zaki. L’attrazione mor­bosa di Heiju per una donna che si mostra indif­fe­rente, la bel­lezza fra­gile di una gio­vane che incarna allo stesso tempo la sen­sua­lità fem­mi­nile e una certa sacra­lità della figura materna, la dia­let­tica giovane/vecchio, le diverse gra­da­zioni del pia­cere sadico e maso­chi­stico, e natu­ral­mente la nostal­gia della madre: è quest’ultimo ele­mento a costi­tuire, ci ricorda la quarta di coper­tina, «la tona­lità pre­va­lente del romanzo». L’anziano padre di Shi­ge­moto, Kuni­tsune, accon­sente a cedere la moglie appena ven­tenne a suo nipote Shi­hei, molto più gio­vane di lui ma di gran lunga più potente a corte. La nar­ra­zione del suo dolore in seguito al «rapi­mento» e per i tre anni che gli riman­gono da vivere è inter­rotta da digres­sioni nelle gesta di Heiju, descritto come «pigro, spi­gliato, spen­sie­rato e affa­bile», spesso incauto e mal­de­stro durante le sue avven­ture, e que­sto spo­sta­mento del fuoco della sto­ria pro­duce un effetto di con­trap­punto che avvolge la figura di Kuni­tsune in una malin­co­nia ancora più strug­gente.
Anthony H. Cham­bers, tra­dut­tore del romanzo in lin­gua inglese, ha sug­ge­rito come il cro­ma­ti­smo freddo che carat­te­rizza le scene dei rari incon­tri tra Shi­ge­moto e suo padre serva a evo­care un pre­sa­gio di morte, e anche la scelta della sta­gione, cioè l’autunno, con­tri­bui­sce a creare que­sta atmo­sfera. L’autore con­trolla la mate­ria nar­ra­tiva siste­ma­ti­ca­mente: ogni ele­mento del pae­sag­gio nasconde una asso­cia­zione, fa capo a una sen­si­bi­lità sedi­men­tata nel corso dei secoli, tra­smessa sotto forma di allu­sione, di figura reto­rica, di rimando inter­te­stuale. È il caso del monte Hiei, e così pure del fiume Kamo. Nella con­sue­tu­dine della cita­zione, Tani­zaki cor­ro­bora l’inven­tio sino a rive­lare un intrec­cio stra­ti­fi­cato e ricco di sug­ge­stioni e di ricordi.
Come i per­so­naggi nelle tavole di Ogura, la sua poe­tica è un gioco di ombre, di con­torni netti che improv­vi­sa­mente si con­fon­dono; la cifra della sua scrit­tura è una ten­sione verso la libertà espres­siva soste­nuta da un senso innato della com­po­si­zione. Scrit­tore colto e raf­fi­nato, lucido inter­prete delle arti e della società del suo tempo e pro­fondo cono­sci­tore dell’antichità giap­po­nese, Tani­zaki riversa nellaMadre del Coman­dante Shi­ge­moto una ulte­riore con­ferma di quanto sia impre­scin­di­bile la sua figura nella let­te­ra­tura del Novecento.

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