La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

mercoledì 25 giugno 2014

VISIONI John Sinclair: sono comunista, ma non dogmatico

da il manifesto
VISIONI

John Sinclair: sono comunista, ma non dogmatico

Intervista a John Sinclair. «Sono stati anni grandiosi eravamo un movimento di massa e lo diventammo soprattutto grazie al rock’n’roll. L’obiettivo primario era uscire dal Vietnam, una volta raggiunto tutto si sgonfiò»
‘’Ho svi­lup­pato il mio atti­vi­smo sco­prendo Max Roach e Char­les Min­gus. Quando mi resi conto che tutta la musica che ascol­tavo da pic­colo era suo­nata da neri, comin­ciai a chie­dermi: «Come mai sono sem­pre loro a pro­durre buona musica, men­tre tutto il resto è così blando e sca­dente?». Sarà anche logora – peren­ne­mente affib­biata a foto­mo­delle, scarpe da gin­na­stica, cal­cia­tori e mac­chi­nette per il caffè – ma è defi­ni­zione che gli si atta­glia per­fet­ta­mente: John Sin­clair è un’icona.
Classe 1938, poeta beat, sto­rico e filo­logo del jazz, autore di libri e di infi­nite note di coper­tina di dischi, atti­vi­sta anti­proi­bi­zio­ni­sta, pro­mo­ter, mana­ger ed emi­nenza gri­gia degli MC5 — la band di Detroit che alla fine degli anni Ses­santa, assieme agli Stoo­ges di Iggy Pop, inne­scò l’accecante auto­com­bu­stione del punk quasi un decen­nio prima del punk – Sin­clair è stato un for­mi­da­bile motore della con­tro­cul­tura hip­pie e [/ACM_2]radi­cal ame­ri­cana. Auten­tico hip­ster e white negro, come defi­nì­Nor­man Mai­ler il cul­tore bianco del jazz degli anni Qua­ranta, bestia nera del FBI e di Nixon, cau­stico agi­ta­tore poli­tico, cre­sciuto nel culto dei mae­stri del Be-Bop, fondò le White Pan­thers, par­tito rivo­lu­zio­na­rio di stu­denti bian­chi soli­dale con le pan­tere nere e unica for­ma­zione poli­tica sca­tu­rita da una band rock’n’roll. Il loro «totale assalto alla cul­tura» piccolo-borghese, per­be­ni­sta e segre­ga­zio­ni­sta ame­ri­cana dell’epoca fu fiam­mata effi­mera quanto epica, cul­mi­nata nel suo arre­sto per pos­sesso di mari­juana (con­danna a dieci anni per aver offerto una canna a una poli­ziotta in borghese).
Il suo rila­scio avvenne dopo quasi due anni e mezzo con l’organizzazione dell’imponente raduno-concerto «John Sin­clair Free­dom Rally» alla Cri­sler Arena di Ann Arbor, in Michi­gan, il 10 dicem­bre 1971, quando una impres­sio­nante schiera di arti­sti, fra gli altri John Len­non e Yoko Ono, Ste­vie Won­der, Allen Gin­sberg e Phil Ochs par­la­rono e suo­na­rono per otto ore davanti a 15 mila per­sone. Finito il Viet­nam, man­dato a casa Nixon, dal 1975 in poi, men­tre il rock diven­tava il monu­mento ingordo e mega­lo­mane di sé stesso, l’America sarebbe tor­nata al pro­prio busi­ness as usual.
«John Len­non? Mi ha tirato fuori di pri­gione, dalle fauci della morte, dalla car­cassa di un’auto in un inci­dente. Se ne esci vivo non ci pensi più all’incidente. Io ero illeso. È stato un periodo ter­ri­bile e non penso più alla galera. Se mi punti una pistola alla tem­pia e mi dai die­ci­mila dol­lari, forse ci ripenso. Certo che mi piace la can­zone che ha can­tato per me. È più bella di Ima­gine
Sa di men­tire Sin­clair, il cui ultimo album di spo­ken word, Mohawk, è appena uscito. Oggi vive ad Amster­dam, è una spe­cie di gran sacer­dote dell’erba nella scena coffe shop della capi­tale, ha un pro­gramma culto a Radio Free Amster­dam, ma non ha mai smesso di scri­vere ed esi­birsi nei suoi spet­ta­coli, dove declama versi che bru­ciano di eterna pas­sione per il jazz e i suoi mae­stri: Monk, Col­trane, Par­ker, Gil­le­spie, Min­gus. L’album è pro­dotto da Steve Fly, bat­te­ri­sta, Dj e pro­du­cer inglese. «Mi pia­ce­rebbe poter dire di essermi imbat­tuto in John a New Orleans, ma in realtà l’ho cono­sciuto via radio, ascol­tando uno dei suoi pro­grammi,» dice Steve, che potrebbe tran­quil­la­mente esserne il figlio, men­tre gira un sapido joint, il primo di una serie.
È un terso pome­rig­gio pri­ma­ve­rile a Lewi­sham, in casa di loro amici, qual­che giorno dopo il con­certo nello sto­rico 12 Bar Club di Den­mark Street. Il lap­top di Sin­clair ulula free jazz stri­dente e incaz­zato. «Amo molto Amster­dam, è un posto ancora molto cool,» dice John in un mor­bido ran­tolo dalla forte cadenza del Mid­west. «Ci siamo incon­trati in un coffe shop di Amster­dam dove io ero poeta in resi­dence. Per me il mondo dell’erba e quello dell’arte sono la stessa cosa. Mi muovo tran­quil­la­mente in entrambi.»
Mohawk si com­pone di dieci brani costruiti sul suo poema always know: a book of monk. «Scrivo versi da cinquant’anni, ma per me è sem­pre la stessa cosa; ieri, oggi, 30 anni fa.» Un per­corso comin­ciato appena ado­le­scente, «La prima volta che ascol­tai Ray Char­les e Wyno­nie Har­ris. Mi die­dero il senso di qual­cosa di grande e così è rima­sto. Rimasi pie­tri­fi­cato da quella bel­lezza. Per Steve, che appar­tiene alla MTV gene­ra­tion, «È stato un per­corso più intel­let­tuale, attra­verso i libri. Ma quando ho ascol­tato la prima volta Miles Davis, negli anni Novanta, mi sem­brava musica del futuro.»
Chie­dere a Sin­clair cosa pensi oggi del debito della musica pop nei con­fronti del jazz e del blues è un vicolo cieco. «Musica popo­lare è un ter­mine senza senso per me. Monk non è musica popo­lare, come non lo sono Sun Ra e Muddy Waters. Non ha alcuna pro­fon­dità emo­tiva o intel­let­tuale, per que­sto non la seguo. Mi pia­ceva il rock and roll negli anni Ses­santa, pen­savo fosse l’antesignano di qual­cosa di diverso. Ma da metà degli anni Set­tanta in poi l’hanno spento, è diven­tata musica di — e per — ricchi.»
Alla domanda se ritiene pos­si­bile oggi pro­durre qual­cosa di dav­vero con­tro­cul­tu­rale, lui che è un vero hip­ster in un’epoca in cui que­sta parola descrive indi­vi­dui osses­sio­nati dal pas­sato da un punto di vista pura­mente este­tico e for­male e le cui foto pati­nate appa­iono su rivi­ste pseudo-alternative ribatte sar­ca­sti­ca­mente. «La con­tro­cul­tura ame­ri­cana non è affatto morta, fio­ri­sce! Si vende a peso, al det­ta­glio: un tatuag­gio due­cen­to­cin­quanta dol­lari, cen­to­cin­quanta per dei jeans strap­pati o un paio di sti­vali. È sto­ria vec­chia. Già On the Road fece ven­dere milioni di paia di Levi’s.» Sta citando, senza alcuna ama­rezza, Wil­liam Burroughs.
Steve non con­di­vide il pes­si­mi­smo del mae­stro. «Esi­stono realtà che rifiu­tano que­sta logica rigo­rosa, che con­fon­dono i piani. Wiki­leaks, Sno­w­den, espri­mono una rea­zione. Più cer­chi di ingab­biare e di con­trol­lare qual­cosa, più que­sto sfugge, è quasi un prin­ci­pio. Tutto è tenuto insieme dal lin­guag­gio ed è da lì che biso­gna par­tire per rea­gire. Per que­sto il jazz è impor­tante: sfalsa i piani e intro­duce una dimen­sione alter­na­tiva gra­zie alla distru­zione della struttura.»
C’è stato Occupy Wall Street, per esem­pio. «E ora dove sono?» chiede reto­ri­ca­mente Sin­clair. «Hanno fatto cose buone ma non è durato. Per fare dav­vero qual­cosa devi per prima cosa spe­gnere la tele­vi­sione, uscire dalla realtà della comu­ni­ca­zione. Non si può stare nel e con­tro il mondo allo stesso tempo.» Chiu­dersi a ric­cio, insomma. «Non mi inte­ressa la cul­tura con­tem­po­ra­nea o la cele­brity cul­ture. Non cono­sco un attore, non guardo video o ascolto musica pop, per me Madonna o Lady Gaga o 50 Cents sono figure cari­ca­tu­rali. L’unica mia fri­vo­lezza è il base­ball. Sono un fan dei Detroit Tigers.» Già, Detroit. Immensa città indu­striale abban­do­nata, un luogo ormai al di là della più sca­te­nata imma­gi­na­zione cyber­punk. «Ero lì appena dieci giorni fa. Quel posto è un relitto, ha comin­ciato a deca­dere già quarant’anni fa, i neri sono stati but­tati fuori, due, tre gene­ra­zioni di gio­vani non hanno mai saputo nem­meno cosa fosse un lavoro.»
Sin­clair ha rica­vato la sua visione del mondo dai beat­niks. «On the road uscì nel set­tem­bre 1957, tre set­ti­mane dopo com­pivo sedici anni, lo divo­rai. Ero cre­sciuto in una cit­ta­dina di pro­vin­cia di bian­chi: leg­gendo Kerouac sco­prii un mondo che non cre­devo esi­stesse né che potesse esi­stere, mi dissi «È qui che voglio vivere.» Poi ven­nero Gin­sberg, Bur­rou­ghs e tutti gli altri. «Per tutta la mia vita ho cer­cato di vivere in quel mondo, dove le per­sone par­la­vano, fuma­vano erba, ascol­ta­vano jazz. Non ave­vamo soldi ma non impor­tava. Al mas­simo ser­vi­vano a tro­vare da fumare, non inte­res­sa­vano a nes­suno. E lì sono rima­sto. Non ho ceduto. Anche in galera, men­tal­mente ero sem­pre lì.»
Che la ribel­lione si fosse svi­lup­pata pro­prio negli anni Ses­santa in Ame­rica, il luogo dove il boom con­su­mi­sta stava rag­giun­gendo livelli stel­lari, non è affatto strano. «C’era dav­vero l’idea di aver tro­vato qual­cosa di meglio, di diverso. Ero un ragaz­zino middle class in una cit­ta­dina di bian­chi. Se avessi con­ti­nuato quel per­corso magari sarei diven­tato il sena­tore del Michi­gan. Odiavo l’università, ma era sem­pre meglio che lavo­rare.» L’impatto del jazz, il suo livello di comu­ni­ca­zione non ver­bale, ser­viva a tra­scen­dere gli angu­sti limiti della logica ari­sto­te­lica, era un modello per la cri­tica e la distru­zione dell’ordine sociale impo­sto dal con­for­mi­smo e uni­for­mità bor­ghesi. «Viene dall’Africa, un posto dove le per­sone comu­ni­ca­vano attra­verso le per­cus­sioni con la divi­nità per otte­nere la piog­gia. Ancora oggi sento molto più vicino a un mondo del genere.»
Il col­lo­quio è un otto volante emo­tivo in cui Sin­clair alterna momenti di grande razio­na­lità ad altri di lan­guo­roso abbandono.
«Que­gli anni? Sono stati grandi, vor­rei tor­nas­sero. Era­vamo un movi­mento di massa, diven­tammo enormi, soprat­tutto gra­zie al rock and roll. Loro hanno vinto, certo, ma noi abbiamo cam­biato la cul­tura. L’obiettivo pri­ma­rio era uscire dal Viet­nam: una volta rag­giunto, tutto si sgon­fiò. Molti di noi ave­vano una visione più ampia, era­vamo comu­ni­sti. Vole­vamo tra­sfor­mare Detroit, abbiamo lot­tato per sette anni, poi in troppi abban­do­na­rono, tor­na­rono all’università, a cer­carsi un lavoro, a met­tere su fami­glia e spo­starsi nei sob­bor­ghi per evi­tare i neri. Men­tre la destra, con­tro la quale lot­ta­vamo, non ha mai smesso di lavo­rarsi la società ame­ri­cana fino agli anni Ottanta, con l’arrivo di Rea­gan. Fino a que­sto pove­rino che c’è adesso (Obama, ndr) cir­con­dato, come lo era Carter.»
Oggi, lon­tano dalla caco­fo­nia di que­sto mondo che implode, Sin­clair trova rifu­gio più che mai nel suo amore di una vita, la musica e la poe­sia. Adora Amster­dam, per lui è ancora un luogo libero, nono­stante l’avanzata della destra xeno­foba e la com­mer­cia­liz­za­zione imper­ter­rita. La città gli manca. «Ho cer­cato di con­tra­stare tutto que­sto, ma ho perso. Se ti accorgi che non fun­ziona, sei un idiota a insi­stere. Alla fine non c’era più un movi­mento di massa che giu­sti­fi­casse la lotta. Molti di noi sono pas­sati dall’altra parte e sono diven­tati i più grandi figli di put­tana del mondo. Non tutti, ma la mag­gior parte. La mia gene­ra­zione era fan­ta­stica, ma si è tra­sfor­mata in una mon­ta­gna di merda. Ho impa­rato la lezione.» Si dice comu­ni­sta, «I’m a com­mie, really,» ma rigo­ro­sa­mente non dog­ma­tico. «Non ho una teo­ria, non ho Trotz­kij, non ho dei. Ho mille dei. Non esi­ste un unico dio, il nostro pro­blema come spe­cie comin­cia col mono­tei­smo. Ma una pre­ghiera tutti i giorni la fac­cio. Per­ché crolli la borsa. «Kick out the Jams, mother­fuc­kers

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.