La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

sabato 31 maggio 2014

Il soul dissacrante della tigre celtica

da il manifesto
CULTURA

Il soul dissacrante della tigre celtica

Roddy Doyle. L’epopea della working class è segnata dal rapporto ambivalente con l’identità dominante. In Irlanda questo significa analizzare il ruolo della chiesa cattolica e il mito della lotta per l’indipendenza. E fare i conti con gli effetti di una crisi economica che ha fatto ritornare al centro della scena pubblica una diffusa povertà. Un’intervista con lo scrittore, ospite a Roma del Festival delle Letterature

''Ogni volta che lascio il mio paese divento subito irlan­dese. Ho biso­gno del pas­sa­porto. Eppure non so bene cosa signi­fi­chi, anzi, se addi­rit­tura signi­fi­chi qual­cosa. Sono piut­to­sto sod­di­sfatto di essere irlan­dese, ma dete­sto essere “irlan­dese”. L’adoro e lo com­batto. Ecco dove penso si possa tro­vare l’identità, nella lotta all’identità. O nella lotta all’identità impo­sta. Stavo scri­vendo il mio nono romanzo quando mi sono reso conto che era pro­prio quello che stavo facendo: lot­tavo con­tro la mia iden­tità, o con­tro quella che altri ave­vano cer­cato di impormi, lot­tavo con­tro l’ideale. Lot­tavo con­tro quello che altri si aspet­ta­vano che fossi e scri­vevo con gioia quello che altri con­si­de­ra­vano non irlan­dese, o meno irlan­dese o più dubli­nese che irlan­dese. Alle pagine dei miei romanzi ho impo­sto la mia per­so­nale defi­ni­zione di ciò che signi­fica essere irlan­desi. E l’ho fatto anche per­ché ne avevo bisogno».
Un irlan­dese rilut­tante, è così che Roddy Doyle si è pre­sen­tato al Festi­val Let­te­ra­ture che si è aperto mar­tedi a Roma. Eppure, nes­suno come que­sto ex inse­gnante di liceo che dal 1993 a oggi ha sfor­nato una decina di romanzi straor­di­nari, fino a diven­tare uno dei pro­ta­go­ni­sti della nar­ra­tiva con­tem­po­ra­nea, ha saputo cogliere e rac­con­tare miti e inquie­tu­dini della terra d’Irlanda. Cre­sciuto nel quar­tiere popo­lare di Kil­bar­rack, nel nord di Dublino, a parte un breve periodo di stu­dio a Lon­dra, Doyle va fiero di non aver mai vis­suto a più di 3 km da dove è nato.
La memo­ria della Dublino ope­raia, i miti infranti della wor­king class, ma anche lo slang biz­zarro di chi vi abita e il modo scan­zo­nato di affron­tare le avver­sità della vita, pro­prio di chi ha cono­sciuto più ombre che luci, tor­nano più volte nei libri di Doyle che, allo stesso tempo, affronta senza alcun timore reve­ren­ziale, e soprat­tutto con un’ironia irre­si­sti­bile, anche gli ele­menti fon­da­tivi dell’identità irlan­dese: la fede cat­to­lica e il ruolo della Chiesa, la lotta per l’indipendenza nazio­nale prima e la lotta armata dell’Ira poi, la povertà ende­mica e il pal­lido oriz­zonte di un boom eco­no­mico rapi­da­mente tramontato.
Da «I Com­mit­mens», por­tato sul grande schermo da Alan Par­ker, a «Paddy Clarke ah ah ah!», da «The Snap­per», di cui Ste­phen Frears ha diretto la ver­sione cine­ma­to­gra­fica, a «The Van», pas­sando per la tri­lo­gia che attra­versa gli anni dell’insurrezione del 1916 e della grande depres­sione e che ha come pro­ta­go­ni­sta Henry Smart, per non citare che alcuni dei suoi titoli più for­tu­nati, lo scrit­tore irlan­dese si erge a testi­mone, ma senza pren­dersi mai troppo sul serio, dei tanti cam­bia­menti vis­suti da un paese che si vor­rebbe, al con­tra­rio, immu­ta­bile e nel solco della tradizione.
Fedele a que­sta sua indole dis­sa­crante ma sem­pre pro­fon­da­mente empa­tica quanto le sorti degli «ultimi», l’ultimo romanzo di Roddy Doyle, La musica è cam­biata (Guanda, pp. 395, euro 18,50), torna a pro­porci la figura di Jimmy Rab­bitte che nei Com­mit­ments era il mana­ger della soul band for­mata da un gruppo di ragazzi squat­tri­nati che cer­ca­vano così di far fronte come pote­vano alla crisi eco­no­mica. Invec­chiato e gra­ve­mente amma­lato, con una nume­rosa fami­glia sulle spalle, sta­volta Jimmy si imbarca in un’impresa altret­tanto ardua: ritro­vare — o inven­tare? — le can­zoni che si suo­na­vano in Irlanda nel 1932, quando si svolse il primo Con­gresso euca­ri­stico del paese, di cui, nel 2012, anno in cui è ambien­tato il romanzo, si cele­bra una nuova edi­zione. Que­sto, men­tre tutto intorno a lui, l’economia della «tigre cel­tica» sta andando in pezzi sotto i colpi della crisi internazionale.
Jimmy Rab­bitte è tor­nato: l’Irlanda è messa così male che biso­gna rico­min­ciare a inven­tarsi qua­lun­que cosa, pur di restare a galla?
Non abban­dono mai i miei per­so­naggi. Ho scritto dieci romanzi e sono sem­pre tor­nato a tro­varli, anche a distanza di molti anni, per vedere che cosa era cam­biato nelle loro vite. Però, è vero, ho pen­sato al ritorno di Jimmy per­ché ho asso­ciato la sua figura alla parola «reces­sione». A distanza di più di vent’anni, volevo capire come Jimmy, e ora anche la sua fami­glia, avreb­bero affron­tato la situa­zione di una nuova crisi eco­no­mica dopo quella con cui ave­vano dovuto fare i conti ai tempi deI Com­mit­ments. Volevo stu­diare le loro rea­zioni, le dina­mi­che che si sareb­bero messe in moto. Volevo, insomma, capire cosa Jimmy avrebbe potuto inven­tarsi stavolta.
Nel libro, il rife­ri­mento agli avve­ni­menti del 1932 sem­bra riman­dare anche ai segni che la povertà e la crisi lasciano, oggi come allora, sulle per­sone. Cosa la col­pi­sce o la spa­venta di più di quanto sta acca­dendo nel suo paese?
La cosa più dura da accet­tare, è il ritorno stesso della crisi eco­no­mica che da noi non è una novità, anche se pen­sa­vamo di esser­cela lasciata alle spalle. Nel 1932 l’Irlanda era un paese pove­ris­simo, con tanta gente che non aveva da man­giare e molti altri che erano costretti ad emi­grare. Dieci anni dopo le cose non anda­vano meglio, e lo stesso si può dire anche per i decenni suc­ces­sivi. Solo nel 1962 la situa­zione è comin­ciata a cam­biare, anche se per par­lare dav­vero di dif­fu­sione del benes­sere dob­biamo aspet­tare almeno fino alla fine degli anni Ottanta. Poi, sono arri­vate altre bato­ste, fino a quando, negli ultimi dieci anni è ini­ziato il cosid­detto mira­colo eco­no­mico della «tigre cel­tica». All’inizio, in molti non si aspet­ta­vano quasi quello svi­luppo, ne erano stu­piti, ci si sono abi­tuati pian piano e poi, sul più bello, quando ave­vano fatto l’abitudine a stare meglio, è arri­vata la nuova tegola della crisi inter­na­zio­nale. Per l’Irlanda è stato un vero shock. Pen­sa­vamo di avere chiuso per sem­pre con la mise­ria e invece davanti a noi si è aperto d’improvviso un pre­ci­pi­zio e ci siamo finiti den­tro con tutte le scarpe. La cosa più inquie­tante è che le per­sone della mia età lasce­ranno il paese in una con­di­zione peg­giore rispetto a quella in cui l’hanno tro­vato quando erano giovani.
Gran parte dei per­so­naggi dei suoi romanzi ven­gono dalla «wor­king class», si sente un po’ il loro portavoce?
In effetti, solo Paddy Clarke appar­tiene alla classe media. Ma non è stata una scelta razio­nale, ho scritto sol­tanto dell’ambiente che cono­scevo meglio. Diciamo che dal mio punto di vista l’appartenenza alla classe ope­raia non si defi­ni­sce tanto dai soldi che si hanno in tasca, quanto piut­to­sto dal modo in cui si decide di spen­derli. È prima di tutto una que­stione di cul­tura. Scri­vere del ceto medio signi­fica neces­sa­ria­mente pre­oc­cu­parsi di sta­tus sym­bol come i mobili, i vestiti, le auto. Ma que­sto non è il mondo in cui sono cre­sciuto e anche ora che non posso certo dire di essere povero, non mi inte­ressa granché.
Per far soldi, Jimmy vuole rac­co­gliere vec­chie can­zoni irlan­desi, ma non cerca pezzi tra­di­zio­nali, bensì sogna di sco­prire qual­che blues dimen­ti­cato, cen­su­rato, spiega, per­ché, «non cor­ri­spon­deva all’immagine che De Valera aveva all’epoca del paese». Nei «Com­mit­mens» si suo­nava soul, qui si evoca il blues di Chi­cago, più che alla musica cel­tica lei sem­bra pen­sare che l’Irlanda sia legata alla cul­tura afroa­me­ri­cana. È il suo modo di inter­pre­tare l’identità del paese?
Non so se siamo impa­ren­tati con gli afroa­me­ri­cani, ma mi pia­ce­rebbe tanto che fosse così. Il soul dei Com­mit­mens era la musica che ascol­tavo all’epoca, e che comun­que in Irlanda era tra­smessa mol­tis­simo dalle radio. Quando alle ricer­che di Jimmy, beh credo che in effetti abbiano a che fare almeno in parte con la mia idea di iden­tità. Mi spiego. Il «Con­gresso euca­ri­stico» del 1932, più che un fatto reli­gioso, rap­pre­sentò per molti soprat­tutto il primo evento inter­na­zio­nale che si teneva nel paese: chi non vi prese parte, restò incol­lato alla radio per giorni per seguirlo. Allo stesso modo, sor­pren­den­te­mente per un paese così cat­to­lico e in un’epoca in cui la reli­gione e la Chiesa domi­na­vano ogni cosa, molte delle can­zoni di quel periodo erano piut­to­sto scon­cer­tanti. Ce n’era ad esem­pio una che si can­tava ancora quando ero ragazzo. È la «Bal­lata dell’omicida», che hanno can­tato intere gene­ra­zioni di dubli­nesi: una can­zone su una donna che uccide il suo bam­bino appena nato con un col­tello in mezzo ad un bosco. Quando avevo otto o nove anni, can­ta­vamo que­sta can­zone a squar­cia­gola nel cor­tile della scuola, ci met­te­vamo molta gioia, come se si trat­tasse di un inno alla Ver­gine Maria. Ecco, tutto que­sto fa parte della nostra edu­ca­zione irlan­dese, del nostro essere irlandesi.
La lotta per l’indipendenza dalla Gran Bre­ta­gna è uno dei capi­toli fon­da­men­tali della sto­ria irlan­dese. Oggi cosa prova nel vedere che gli inglesi vogliono essere indi­pen­denti dall’Europa e che l’Ukip, il par­tito che difende que­sta idea biz­zarra, è il più votato?

In effetti, a prima vista potrebbe quasi sem­brare un cosa buffa o para­dos­sale — cosa signi­fica voler essere indi­pen­denti da un orga­ni­smo plu­ri­na­zio­nale, col­let­tivo per defi­ni­zione? -, ma in realtà è qual­cosa di pre­oc­cu­pante e che in me desta parec­chia inquie­tu­dine. Que­sta ondata di destra che scuote l’Europa non mi lascia tran­quillo. Ma sto cer­cando anche di capire cosa sta suc­ce­dendo dav­vero. Par­tiamo da un ele­mento che mi sem­bra cen­trale. Secondo un cen­si­mento che è stato fatto due o tre anni fa, almeno un abi­tante su dieci della Repub­blica d’Irlanda è nato in un altro paese. Eppure, da noi, que­sto argo­mento non si è mai tra­sfor­mato in un tema da cam­pa­gna elet­to­rale. In que­sti giorni, invece, ho letto che in Dani­marca un abi­tante su otto è di ori­gine stra­niera, e da loro la cosa è diven­tata così seria che un par­tito di estrema destra ha vinto le ele­zioni. Que­sto mi fa capire che non devo sot­to­va­lu­tare troppo il fatto di vivere in Irlanda e che, forse, il modo migliore di affron­tare que­sti temi asso­mi­glia un po’ al mio paese e alla musica che amo: è un mix senza fine. Dublino, la mia città, rias­sume in sé quello che con­si­dero uno degli anti­doti migliori al raz­zi­smo e all’intolleranza: rein­venta e ride­fi­ni­sce senza sosta la pro­pria iden­tità e la pro­pria cul­tura. Credo sia l’unico modo per potersi dire orgo­gliosi di vivere in un deter­mi­nato paese senza fare danni o esclu­dere qualcuno.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.