La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

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Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

martedì 6 maggio 2014

Elogio della democrazia economica

Elogio della democrazia economica


Senza democrazia nell'economia non esiste vera democrazia. E senza la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori l’Europa non uscirà dalla sua grave crisi economica e politica. Pubblichiamo un estratto dal “Manifesto per la Democrazia Economica” di Enrico Grazzini, in questi giorni in libreria per Castelvecchi Editore. 

di Enrico Grazzini


Questo saggio è focalizzato sulla democrazia economica. La nostra tesi è che senza democrazia nell'economia non esiste una vera democrazia; e che l'economia è più efficiente, innovativa e sostenibile se include elementi di democrazia.

Democrazia economica può però avere molti e diversi significati. Del resto tutte le parole possono avere connotazioni differenti e sono per natura ambigue. Per prima cosa occorre quindi tentare di specificarne il senso e contestualizzarle. Per noi democrazia economica significa che, come accade da sessanta anni in Germania con la Mitbestimmung (codecisione), i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti nel board delle maggiori imprese private e pubbliche e influire sulle scelte strategiche e sulla gestione aziendale. Democrazia economica significa anche che i beni comuni dovrebbero essere gestiti autonomamente dalle comunità interessate, a tutti i livelli, locale, nazionale, globale; e che i cittadini dovrebbero potere controllare e cogestire con i loro rappresentanti i servizi pubblici di cui sono utenti e di cui, come contribuenti, sono anche «proprietari». Il bilancio partecipato dovrebbe diventare la norma per indirizzare le politiche di spesa a favore dei cittadini e per fare funzionare bene le istituzioni pubbliche.

Il concetto di democrazia economica – concepito inizialmente dal socialismo utopistico e dal marxismo in termini radicali, e poi sviluppato soprattutto dalla socialdemocrazia europea in termini riformistici – è nel tempo diventato molto ambiguo e va approfondito: per noi la democrazia economica non può diventare una nuova forma per mascherare e addolcire la subordinazione del lavoro all’impresa e al capitale. Non può esaurirsi solo in formule di collaborazione a livello puramente operativo tra lavoratori, quadri e manager, per esempio, per aumentare la produttività, garantire maggiori livelli di flessibilità e di sicurezza sul lavoro; né può limitarsi alla pura partecipazione finanziaria dei lavoratori al capitale e/o all’utile dell’impresa, senza che questi abbiano alcun potere decisionale e una rappresentanza effettiva e incisiva nel board delle imprese.

Democrazia economica significa invece che tutti i lavoratori – iscritti o non iscritti ai sindacati – devono potere eleggere democraticamente i loro rappresentanti nel board delle aziende e che i rappresentanti del lavoro devono avere (almeno tendenzialmente) un potere pari a quello dei consiglieri nominati dagli azionisti, ed essere in grado di influire realmente sulle strategie e la vita dell’azienda. Questo modello non è certamente utopistico perché funziona già, seppure in diverse versioni, in alcune delle maggiori democrazie del mondo occidentale, in Germania, abbiamo detto, come nei Paesi scandinavi e del Centro Europa. Ma è quasi del tutto ignorato dalle due correnti ufficiali e prevalenti dell’economia politica, sia dal neoliberismo che dalle tendenze neokeynesiane. La questione della democrazia economica è, come tutte le questioni scottanti che riguardano il potere, molto scomoda per le correnti culturali e politiche dominanti, a Destra come a Sinistra. Quindi il tema controverso della democrazia economica è sostanzialmente espulso dal dibattito critico.

Eppure, come indicano le analisi dello European Trade Union Institute (Etui), il centro studi europeo dei sindacati, nell’Unione europea già 14 Paesi su 28, soprattutto nell’area renana (Germania, Austria, Olanda, Lussemburgo) e scandinava (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia), hanno introdotto forme avanzate di partecipazione codecisionale dei lavoratori nei board delle aziende pubbliche e private: e questi Paesi sono anche quelli in cui – senza eccezione di sorta! – si registra la maggior occupazione, maggiore reddito per i lavoratori, maggiore competitività delle aziende, maggiore innovazione, migliore sostenibilità ambientale e maggiore potere sindacale .
Germania e Paesi scandinavi stanno uscendo prima e meglio degli altri dalla crisi e dimostrano senza tema di smentita che, contrariamente a quanto reclamano i neoliberisti, la democrazia industriale non pregiudica la competitività aziendale.

La questione della democrazia economica è complessa e controversa ma è attualmente pressoché ignorata dagli studiosi, dai mass media e dai decisori politici, oscurata nel dibattito pubblico anche se è di enorme importanza. Fino a quando si è imposto il comunismo di stile sovietico il problema della democrazia economica è stato centrale nella lotta politica e sociale del ventesimo secolo; poi, con la sconfitta degli Stati dittatoriali comunisti e con la parallela crisi della socialdemocrazia, il dibattito è stato quasi completamente rimosso. Negli ultimi decenni il liberismo (dispotico e prepotente) è diventato assolutamente dominante e la democrazia economica è diventata il vero buco nero del dibattito pubblico. L’economia sembra destinata a rimanere senza democrazia.

Del resto il capitalismo non ha mai tollerato limiti al suo potere, soprattutto nel campo economico, da cui il suo potere deriva. Il paradosso però è che anche la Sinistra e i progressisti – salvo rare eccezioni – non discutono più di democrazia nell’economia e di democrazia del lavoro; sembra che sia venuta meno l’ambizione di dare più potere ai cittadini e ai lavoratori nella sfera fondamentale dell’economia. In generale, sembra che la cultura progressista abbia abbandonato gli ideali alti e nobili di estendere e approfondire il «potere del popolo». Pressata dall’emergenza quotidiana della crisi che stiamo vivendo, stenta a elaborare visioni alternative. Eppure oggi proprio la drammatica crisi economica e la conseguente grave crisi politica dovrebbero rimettere al centro dell’agenda collettiva la questione della democrazia nell’economia: questa potrebbe infatti rappresentare il possibile antidoto per risolvere i dissesti economici e i drammatici deficit della politica.

Perché la questione della democrazia economica dovrebbe diventare sempre più attuale, soprattutto in Europa? La risposta è netta: perché senza la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori è impossibile che l’Europa riesca a uscire dalla grave crisi economica, ecologica e della democrazia.

L’Europa potrebbe rappresentare un’avanguardia per la democrazia nell’economia. La Germania fornisce di gran lunga il maggiore esempio a livello mondiale di democrazia economica grazie alla Mitbestimmung (che in italiano si traduce «codeterminazione»). La Mitbestimmung consiste nella partecipazione dei lavoratori ai consigli di sorveglianza delle maggiori aziende e nell’intervento dei consigli sindacali nella gestione dell’organizzazione del lavoro. Certamente laMitbestimmung, dopo oltre sessanta anni dalla sua introduzione, non solo non ha impedito alle aziende tedesche di crescere ma, al contrario, è stata ed è tuttora il fattore di successo che le ha rese competitive nel mondo.

Eppure l’Europa che si sta costruendo va in direzione esattamente contraria rispetto a quella indicata in maniera esemplare dal modello tedesco. L’Unione europea persegue piuttosto il modello (fallimentare) di corporate governance anglosassone. Mentre i politici europei sbandierano le sacre parole di libertà e democrazia, la politica della Ue va in senso opposto rispetto alla retorica sulle libertà democratiche, perché contrasta la possibilità di partecipazione nella sfera più importante dell’attività umana: quella economica e del lavoro!

Una politica riformista dovrebbe al contrario sollecitare gli europei a seguire l’esempio tedesco, non solo per democratizzare le imprese e sviluppare un modello di economia socialmente e ambientalmente sostenibile, ma anche per rendere le aziende più innovative e concorrenziali. La democrazia economica costituisce infatti un fattore essenziale di competitività nell’economia della conoscenza perché alimenta l’intelligenza collettiva; e questa si sviluppa solo grazie a scambi orizzontali e alla pari in un ambiente tollerante e libero (come quello della rete Internet). Per uscire dalla crisi la Ue ha invece puntato su ricette recessive e di austerità da imporre in maniera autoritaria. Ma solo con la democrazia partecipata si sblocca l’economia nel senso dell’innovazione e della sostenibilità.

La crisi è partita dalla finanza. La causa dei disastri economici è nella finanza selvaggia, la quale è stata completamente deregolamentata, negli Usa come in Europa e in Italia, da un mondo politico complice o succube della speculazione. Gli Stati si sono svenati per salvare le banche che giocano sulle scommesse finanziarie, e i bilanci pubblici sono finiti in deficit pesantissimi: i soldi dei contribuenti sono stati spesi per coprire i buchi della finanza speculativa.

In Europa la famigerata Troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, Commissione europea), invece di contrastare la speculazione, propugna i dogmi disastrosi del neoliberismo e impone bilanci pubblici in pareggio: la crisi colpisce quindi in primo luogo duramente i servizi pubblici per i cittadini. I tagli vengono decisi dall’alto e colpiscono i servizi essenziali, come la sanità e l’istruzione, e i diritti acquisiti da decenni. Le restrizioni alla spesa pubblica e ai diritti sociali impongono anche forti restrizioni alla democrazia.

La soluzione democratica alla crisi del bilancio pubblico però esiste, e si chiama bilancio partecipato. In Svizzera e in California, due tra gli Stati più sviluppati del mondo, i cittadini votano leggi propositive e referendum per partecipare a livello nazionale alla gestione dei «loro» beni, cioè i beni pubblici.

Inoltre, anche a livello locale, a partire dall’esperienza di Porto Alegre in Brasile, in centinaia di città la partecipazione dei cittadini nella gestione del bilancio comunale – e in particolare dei cittadini più svantaggiati, che generalmente non hanno voce presso le autorità e sono negletti dalle autorità – ha portato a dei risultati di maggiore efficienza della spesa pubblica, di maggiore equità e soddisfazione. I cittadini pagano più volentieri le tasse quando possono decidere le priorità di bilancio e verificare dove e come effettivamente vengono spesi i loro soldi.

In Italia il referendum sull’acqua come bene comune, come risorsa delle comunità, ha rilanciato le tematiche del controllo e della gestione dal basso dei beni pubblici. La politica, in Italia come in Europa, si muove però ancora una volta in direzione esattamente opposta: quella della privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni. Ma sono stati proprio il desiderio smodato di accumulazione privata e l’ingordigia finanziaria a provocare la drammatica crisi economica e ad aggravare la crisi della democrazia.

La crisi finanziaria globale attuale ha radici nell’economia reale e nel fatto che le aziende hanno come solo obiettivo quello di «creare valore per gli azionisti» senza preoccuparsi di chi in azienda lavora e produce, e quindi di chi crea davvero il valore per l’impresa. La corporate governance autoritaria e orientata alla massimizzazione del valore finanziario dell’impresa è responsabile non solo della crisi economica ma anche di quella ecologica e della democrazia. Crisi economica, ecologica e democratica sono strettamente connesse e rappresentano gli aspetti eclatanti della crisi epocale di un capitalismo che, come un novello apprendista stregone, non sembra più capace di controllare e governare le immense forze produttive che ha sviluppato e sviluppa.

In questo saggio proponiamo il modello di Mitbestimmung come esemplare perché prevede un vero potere decisionale esercitato dai rappresentanti dei lavoratori democraticamente eletti negli organi direttivi aziendali, senza che questi però siano necessariamente vincolati a una partecipazione finanziaria nell’azienda. Il modello tedesco può diventare un riferimento positivo per la Sinistra europea e italiana perché il modello di sindacato concertativo si è dimostrato fallimentare. Ma anche il modello di sindacato puramente conflittuale, tipo Fiom o Cobas in Italia, è purtroppo perdente. La lotta sindacale all’interno dei confini nazionali difficilmente può avere un esito positivo in una fase in cui il capitale si sposta come e dove vuole.

Per avere qualche possibilità di successo (non sicura e non certa) occorre avere anche delle sponde politiche e delle istituzioni partecipative e codecisionali sul modello della Mitbestimmung. In Italia, le esperienze negative di Fiat, Telecom e Ilva suggeriscono che se i lavoratori (e lo Stato) fossero rappresentati nei board delle grandi imprese – come avviene per esempio alla Volkswagen o alla Siemens in Germania – potrebbero assai più facilmente difendere il loro lavoro e le attività produttive. La Mitbestimmung può inoltre contrastare la finanziarizzazione delle aziende e la svendita delle principali aziende nazionali al capitale estero. Senza lo sviluppo di forme di democrazia industriale nelle grandi imprese la sconfitta del lavoro è comunque sostanzialmente certa.

Ma la democrazia economica deve partire innanzitutto dal settore pubblico. In Italia, ad esempio, il più grave errore dei sindaci di Sinistra eletti nell’ultima tornata elettorale a furor di popolo, è quello di non avere chiamato i cittadini a partecipare direttamente alla gestione del bilancio pubblico delle città in crisi. Il distacco tra le istituzioni locali e i cittadini si sta infatti ampliando e provoca fenomeni di delusione, di apatia, se non di rigetto.

Anche il referendum sull’acqua come bene comune avrebbe avuto conseguenze concrete, incisive e durature se i promotori avessero preteso forme istituzionalizzate di cogestione dell’acqua pubblica da parte dei lavoratori e dei cittadini negli enti pubblici. I movimenti per i beni comuni sono riusciti a frenare la privatizzazione di un bene essenziale come l’acqua: ma in effetti subito dopo il referendum il loro potere è praticamente svanito e i processi di privatizzazione continuano in maniera più o meno esplicita. Il problema è che la Sinistra non ha ancora compreso che la questione politica di istituzionalizzare per via legislativa forme di democrazia economica dal basso è centrale per uscire democraticamente dalla crisi.

Sembra che anche la Sinistra abbia timore di dare voce e potere ai cittadini e ai lavoratori. Ma, senza democrazia economica, la democrazia politica, impiccata dal debito e soffocata dalla finanza globale, si svuota della partecipazione popolare, agonizza e rischia infine di cadere nel precipizio dell’autoritarismo, o anche della dittatura. Diventa allora necessario introdurre la democrazia anche nella sfera economica per esaltare la libertà, l’intelligenza e la creatività delle persone e della società e per uscire finalmente dalla profonda crisi economica in cui ci ha gettato la finanza speculativa.
 fonte MicroMega

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