La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

martedì 6 maggio 2014

L’ANGOLO DEL LIBRO: suggerimenti di lettura, PERCHÉ LE NAZIONI FALLISCONO e REWIRE. COSMOPOLITI DIGITALI NELL’ERA DELLA GLOBALITÀ


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L’ANGOLO DEL LIBRO: suggerimenti di lettura

PERCHÉ LE NAZIONI FALLISCONO 
untitledPer la scienza sociale è la madre di tutte le domande: perché ci sono paesi che diventano ricchi e paesi che restano poveri? Per quale ragione nel mondo convivono prosperità e indigenza? Alcuni si soffermano sul clima e sulla geografia. Ma il caso del Botswana, che cresce a ritmi vertiginosi mentre paesi africani vicini, come Zimbabwe, Congo e Sierra Leone, subiscono miserie e violenze, smentisce questa interpretazione. Altri chiamano in causa la cultura. Ma allora come si spiegano le enormi differenze tra il Nord e il Sud della Corea? E che dire di Nogales, Arizona (leggi sotto), che ha un reddito pro capite tre volte più alto di Nogales, Sonora, città gemella messicana? Le origini di prosperità e povertà risiedono nelle istituzioni politiche ed economiche che le nazioni si danno. Ce lo dimostrano Daron Acemoglu e James A. Robinson, accompagnandoci in un emozionante viaggio nella storia universale, di civiltà in civiltà, di rivoluzione in rivoluzione. Dall’Impero romano alla Venezia medievale, dagli inca e i maya, distrutti dal colonialismo spagnolo, al devastante impatto della tratta degli schiavi sull’Africa tribale, dalla Cina assolutista delle dinastie Ming e Qing al nuovo assolutismo di Mao Zedong, dall’Impero ottomano alle autocrazie mediorientali, le élite dominanti preferiscono difendere i propri privilegi ed estrarre risorse dalla società che avviare un percorso di benessere per tutti.
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“La città di Nogales è tagliata in due da un muro. Se ci si avvicina e si guarda a nord è possibile vedere Nogales, Arizona, parte della contea statunitense di Santa Cruz. Da quel lato il reddito di una famiglia media è di circa 30000 dollari l’anno. Gran parte degli adolescenti va ancora a scuola e la maggioranza degli adulti ha un diploma di istruzione superiore. Malgrado tutte le critiche che le persone fanno al sistema sanitario statunitense per le sue carenze, la popolazione è relativamente in buona salute, con un’alta aspettativa di vita secondo gli standard globali. Molti dei residenti hanno più di sessantacinque anni e il diritto all’assistenza sanitaria pubblica di Medicare. Questo è solo uno dei molti servizi che lo stato fornisce e che la maggior parte dei cittadini dà per scontati, come l’elettricità, i telefoni, il sistema fognario, la rete di strade che li unisce al resto degli Stati Uniti e, ultima ma non meno importante, la garanzia della legalità e dell’ordine. Gli abitanti di Nogales, Arizona, possono svolgere le proprie attività “quotidiane senza timore di attentati alla vita o alla sicurezza, e non devono temere costantemente di essere vittime di furti, espropri e altre cose che potrebbero mettere a repentaglio i loro investimenti in aziende e immobili. Altrettanto importante, i residenti di Nogales, Arizona, danno per scontato che, pur con tutte le inefficienze e la corruzione occasionale, lo stato agisca nel loro interesse. Possono votare per sostituire il loro sindaco, i loro deputati e senatori; si esprimono alle elezioni presidenziali che determinano chi sarà il leader del paese. La democrazia è per loro una seconda pelle.
La vita a sud del muro, solo pochi metri più in là, è piuttosto diversa. Anche se i residenti di Nogales, Sonora, vivono in una zona relativamente prospera del Messico, il reddito della famiglia media è circa un terzo rispetto a quello di Nogales, Arizona. Gran parte degli adulti di Nogales, Sonora, non ha un diploma, e molti adolescenti non vanno a scuola. Le madri devono affrontare alti tassi di mortalità infantile. Data la scarsa qualità del sistema sanitario pubblico, non sorprende che i residenti di Nogales, Sonora, non vivano altrettanto a lungo dei loro omologhi del nord. Allo stesso modo, non hanno accesso ad altri servizi pubblici. Le strade sono in cattive condizioni, a sud della frontiera. La legalità e l’ordine pubblico stanno ancora peggio. Il tasso di criminalità è elevato e aprire un’azienda è rischioso: non solo c’è il rischio di furti e rapine, ma ottenere tutti i permessi e «oliare» tutti gli amministratori non è un’impresa facile, anche solo per avviare un’attività. I residenti di Nogales, Sonora, convivono ogni giorno con la corruzione e l’inettitudine dei politici.
In contrasto con i vicini del nord, la democrazia è un’esperienza molto recente per loro. Fino alle riforme politiche del 2000, Nogales, Sonora, come il resto del Messico, era sotto il corrotto controllo politico del Pri, il Partito rivoluzionario istituzionale.
Come possono le due metà di quella che è in sostanza la stessa città essere così diverse? Non c’è differenza nella geografia, nel clima, e neppure nelle malattie tipiche dell’area, dal momento che i germi non devono affrontare le restrizioni esistenti per andare avanti e indietro tra Stati Uniti e Messico. Naturalmente, le condizioni di salute sono molto diverse, ma questo non ha niente a che fare con l’epidemiologia; la ragione è invece che le persone a sud del confine vivono in condizioni igieniche peggiori e sono prive di un’assistenza sanitaria decente.
Ma forse il fatto è che i residenti sono molto diversi. Non sarà che gli abitanti di Nogales, Arizona, sono i pronipoti dei migranti dall’Europa, mentre quelli a sud sono discendenti degli aztechi?
In realtà non è così. “I retroterra delle persone da entrambi i lati del confine sono assai simili. Dopo che il Messico si rese indipendente dalla Spagna nel 1821, l’area attorno a «Los dos Nogales» divenne parte dello stato messicano della Vieja California, e tale rimase anche dopo la guerra messicano-americana del 1846-1848. Fu solo dopo il cosiddetto Gadsden Purchase (letteralmente l’acquisto di Gadsden) nel 1853, infatti, che il confine statunitense si estese fino a quest’area. Il tenente Nathaniel Michler notò, mentre faceva la ricognizione della frontiera, la «bella, piccola valle di Nogales». Lì furono fondate le due città, una su ciascun lato del confine. Gli abitanti di Nogales, Arizona, e di Nogales, Sonora, condividono gli stessi antenati, amano lo stesso cibo e la stessa musica, per cui ci possiamo arrischiare a dire che abbiano la stessa «cultura».
Naturalmente, esiste una spiegazione molto semplice e ovvia per la differenza fra le due Nogales, che il lettore avrà intuito fin dall’inizio: l’esistenza della frontiera che divide le due metà. Nogales, Arizona, è negli Stati Uniti. I suoi abitanti hanno accesso alle istituzioni economiche statunitensi, che consentono loro di scegliere liberamente le rispettive occupazioni e di acquisire istruzione e competenze, e che incoraggiano i loro datori di lavoro a investire nelle migliori tecnologie: fattori che, nel loro insieme, consentono loro di ricevere salari più alti. Hanno anche accesso a istituzioni politiche che permettono di partecipare al processo democratico, di eleggere i propri rappresentanti e di rimpiazzarli se agiscono in modo sbagliato. Di conseguenza, i politici forniscono i servizi di base (dalla sanità pubblica alle strade e all’ordine pubblico) che i cittadini esigono. Gli abitanti di Nogales, Sonora, non sono altrettanto fortunati. Vivono in un mondo diverso, plasmato da istituzioni diverse. Le istituzioni creano incentivi molto differenti per gli abitanti delle due Nogales e per le aziende e gli imprenditori disposti a investirvi. Tali incentivi, determinati dalle differenti istituzioni dei due paesi in cui sono situate, sono la ragione principale del divario di prosperità economica di qua e di là dal confine.
Perché le istituzioni degli Stati Uniti sono tanto più adatte a promuovere il successo economico di quelle del Messico e, oltretutto, dell’intera America Latina? La risposta a questa domanda risiede nel modo in cui le diverse società si sono formate durante il primo periodo coloniale, allorché si determinò un processo di divergenza istituzionale, le cui conseguenze perdurano ancora oggi. Per capire questa differenziazione, dunque, dobbiamo cominciare dalla fondazione delle colonie in Nordamerica e America Latina.
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Perché le nazioni falliscono
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REWIRE. COSMOPOLITI DIGITALI NELL’ERA DELLA GLOBALITÀ
È ORA DI RIFARE IL WEB
di Fabio Chiusi
9788823834224Fino a oggi la Rete non ci ha reso più cosmopoliti. Né più interessati alle opinioni altrui. Anzi, ha alimentato gli estremismi. Ma possiamo ancora cambiarla. Parla il guru Ethan Zuckerman
Iperconnesso significa cosmopolita? Non necessariamente, scrive Ethan Zuckerman in “Rewire. Cosmopoliti digitali nell’era della globalità”, Egea, pp. 256 : poter essere connessi a tutto il globo e a tutte le visioni del mondo non significa che ci interessi farlo davvero, e che lo facciamo. Di certo, argomenta il direttore del Center for Civic Media del Mit di Boston, non sarà la tecnologia da sola a renderci cittadini del mondo. Diventarlo costa fatica, spiega in questa intervista a “l’Espresso” in occasione della sua unica tappa italiana, venerdì 2 maggio al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. «Siamo ossessionati dagli algoritmi», dice, «e non pensiamo abbastanza alle persone» e a come usano davvero la Rete, al netto dei proclami.
Zuckerman, dovremmo vivere in un mondo cosmopolita perché sempre connesso. Invece, ad esempio, siamo all’alba di elezioni europee all’insegna della paura di una crescita decisa dei nazionalismi. Come spiega questo paradosso?«A ogni nuova tecnologia c’è chi predice che ne deriveranno pace e cosmopolitanismo. Basta ricordare la retorica sulla radio, a partire da quella di Guglielmo Marconi. Diceva che avrebbe reso la guerra impossibile, perché l’avrebbe resa assurda. La sua teoria era che una volta che avessimo potuto sentire la voce di popolazioni di altri paesi non saremmo mai andati in guerra contro di loro. Lo stesso è stato ipotizzato per l’aereo. Prima che diventasse uno strumento di guerra, si pensava che potendo le persone viaggiare in luoghi lontani, e i diplomatici incontrarsi faccia a faccia, il risultato di quella nuova tecnologia sarebbe stato la pace. Lo stesso per il telegrafo, il telefono, la televisione. C’è sempre questo salto immaginativo, e poi l’impatto con la realtà: la radio, nei fatti, ha portato distrazione più che incontro. E si può sostenere lo stesso si stia verificando con Internet».
Qual è l’argomentazione dettagliata nel suo libro, in proposito? 
«È che dobbiamo liberarci dell’ottimismo ingenuo, che in sostanza dice: siamo tutti connessi, quindi andrà tutto bene, vivremo in un futuro cosmopolita. Ciò di cui c’è invece bisogno è un ottimismo informato. Significa sostenere che possiamo usare Internet per affrontare questo tipo di questioni, ma non accadrà automaticamente, senza sforzo da parte nostra. Il cosmopolita digitale si chiede: quali sono i modi per concretizzare gli effetti positivi della tecnologia?».
Lei scrive che il paradosso sta nell’essere iperconnessi e allo stesso tempo avere visioni del mondo più ristrette. Esistono studi che mostrano un legame tra la diffusione delle tecnologie digitali e il rinforzarsi di posizioni nazionaliste, anche in termini elettorali? 
«Non ne sono a conoscenza, probabilmente perché il ruolo delle tecnologie in quel tipo di studi sarebbe decisamente di secondo piano: da scienziato sociale posso dirle che il nazionalismo ha molto più a che fare con le ristrettezze economiche. Tuttavia ho recentemente lavorato con alcuni colleghi sull’hate speech mentre ero in Birmania, che si sta connettendo alla Rete solo ora e ha terribili problemi di tensioni etniche. Molti sono preoccupati per ciò che significa Facebook per le violenze tra islamici e buddisti, perché è un contesto dove si pensa di parlare a pochi intimi e non in pubblico, e di conseguenza i toni sono molto più estremi. Le ricerche svolte sulle elezioni del 2013 in Kenya confermano, mentre su Twitter è più chiara la percezione di essere in pubblico, e dunque ci si modera. Ecco, questo potrebbe fornire una prova che il problema non è Internet ma come lo usiamo».
Ovvero? 
«Che se lo usiamo in modo da avere conversazioni private con un gruppo di persone di cui ci fidiamo, potremmo effettivamente finire per avere opinioni più estreme. E del resto, è così che funziona tra i neonazi e gli ultranazionalisti. Se invece lo usiamo in modo da rendere quelle conversazioni visibili, potendole trovare, confrontare ed esporre a refutazione allora forse è possibile farne uno strumento per controbilanciare gli estremismi».
Il che ci porta alle sue riflessioni sull’importanza dell’architettura stessa dei social network per il cosmopolitismo. Nel libro argomenta in favore della creazione di piattaforme per la “serendipità”, ossia per la scoperta casuale. Come le immagina? 
«Ci ha lavorato uno dei miei studenti, per la sua tesi. È molto interessante, si chiama “Terra Incognita”. Quel che fa è osservare quali notizie leggiamo sul Web, e aiutarci a comprendere a quali parti del mondo stiamo prestando attenzione. Per scoprire per esempio che leggiamo molto sull’Unione Europea, diversi siti tecnologici statunitensi, ma poco o nulla sull’Asia dell’est. Così, aprendo una nuova pagina sul browser, invece di una pagina bianca il software può mostrarci una città dell’est asiatico, e qualche buon link al riguardo. La speranza è catturare l’attenzione del lettore».
Ma una simile piattaforma ha senso dal punto di vista economico? Il modello di business dominante, attualmente, si basa al contrario sulla iperpersonalizzazione dei contenuti di cui fruiamo. Serve a definire e inquadrare le nostre preferenze, e venderci prodotti tarati esattamente su di esse. La serendipity è un fattore di disturbo, in questo senso: rende meno precisa l’immagine che le aziende pubblicitarie hanno di noi, perché ci suggerisce – montalianamente – ciò che non siamo e non vogliamo. 
«Vero, non ha senso dal punto di vista economico. Di certo ne ha meno che dare alle persone esattamente ciò che vogliono. Se sono un pubblicitario e so che sei un fan della Serie A è molto meglio suggerirti notizie sul calcio che cercare di convincerti a conoscere il Muay Thai, l’arte marziale tailandese. Ma se ho una responsabilità civile oltre che fiscale, che è tra i compiti dell’informazione, renderci dei buoni cittadini include anche darci una buona visione di ciò che accade nel mondo. Farci considerare noi stessi non solo come statunitensi o italiani, ma anche come nordamericani, europei, cittadini dello stesso pianeta».
Basterà ribadire il ruolo civico del giornalismo? 
«Non c’è solo quello. Credo che l’avvento della rete sociale possa comportare la volontà da parte di alcuni di spendere del denaro per ottenere la serendipità. Un piccolo esempio: io pago per la app Instapaper, la sua funzione di ricerca dei contenuti salvati dagli amici e dagli altri utenti è uno dei miei principali motori di wesattamente per quella funzione. Credo che sarà possibile avere modelli di redditività basati sulla serendipità».
La rete di per se stessa è una infrastruttura globale. Ma le rivelazioni di Edward Snowden hanno portato a proposte per “balcanizzare” Internet, ossia dividerla in tante isole tra loro sconnesse. La sorveglianza di massa complica le prospettive del cosmopolitismo digitale? 
«Il modello di business di Internet, al momento, è la sorveglianza. Google lo dice chiaramente; Facebook è molto meno trasparente. È possibile, anche se improbabile, che la risposta sarà la costruzione di un altro modello di business, basato sui contenuti a pagamento in cambio di una privacy reale».
Così da possedere davvero i nostri dati. 
«Sarebbe magnifico se accadesse. Possiamo immaginare Facebook dire: pensiamo di poter ricavare 20 dollari dalla vendita dei tuoi dati; dacceli e non li venderemo. Non credo accadrà a meno di forti pressioni governative, e non riesco a immaginare che un governo le faccia. La mia preoccupazione è che potremmo vedere il verificarsi della balcanizzazione, e se ciò significasse niente più brasiliani su Facebook e Twitter perché sono sostituiti da servizi locali sarebbe tragico. E del resto è quanto accaduto in Cina: se molti di noi sono così sprovveduti sulla Cina è perché le conversazioni avvengono su Weibo e WeChat, e buona parte di noi non vi è iscritta. Non è solo una barriera linguistica, ma anche di piattaforma. Temo che nel tentativo di riavere indietro la nostra privacy potremmo finire per spezzettare luoghi pubblici di cui abbiamo bisogno ora più che mai».
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