«38 mila persone possono spendere come 3 milioni e 800
mila. Ogni ricco ha il reddito di cento poveri. Non è l’Inghilterra di
Dickens, né l’America della Grande Depressione. È l’Italia di oggi».
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Questo ci dice Mario Pianta in
Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa,
appena uscito da laterza (176 pagine, 12 euro). Siamo (quasi) tutti più
poveri, certo, perché c’è la devastante crisi economica partita nel
2008 dagli Stati Uniti. Ma non solo. Negli ultimi anni abbiamo assistito
anche a una gigantesca redistribuzione del reddito che ha aumentato le
distanze fra ricchi e poveri, facendo crescere la disuguaglianza
sociale. E questo è accaduto non solo in Italia, ma in tutto
l’Occidente, grazie alle politiche neoliberiste che hanno dominato senza
opposizione. Noi italiani, poi, abbiamo i nostri “peccati originali”,
che oggi ci tocca scontare ancora più cari Come spiega benissimo Pianta,
quando il resto del mondo correva, noi stavamo fermi. Perché non
abbiamo modernizzato il nostro sistema industriale, dove le imprese sono
concentrate in settori tradizionali, perché troppe sono le aziende
piccole, perché gli investimenti sono stati troppo bassi rispetto agli
altri paesi avanzati, malgrado gli utili crescessero come dappertutto.
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L’impoverimento
non ha solo effetti economici. Modifica anche la struttura sociale e i
“sentimenti” collettivi. Marco Revelli in
Poveri, noi
(Einaudi, 128 pagine, 10 euro) ha illustrato come il risentimento e
l’intolleranza si siano nutriti nel nostro paese di fenomeni come i
“workin poors”, cioè di quegli operai che, malgrado lavorino (e
duramente) finiscono nella categoria dei “poveri” e degli “esclusi”,
come non era mai accaduto almeno dalla fine della seconda guerra
mondiale. Ma il declino economico del paese ha impoverito anche i ceti
medi, dove Revelli ha censito 19 milioni di persone che, se non sono
povere, sono certamente «minacciate dalla povertà».
Poi ci sono i lavoratori precari, giovani destinati quasi tutti a non trovare mai un lavoro stabile.
Ma, attenzione, avvertiva Revelli già due anni fa, in questo universo
l’“ira sociale” non si trasforma in rancore. Piuttosto, questi
protagonisti della “cattiva modernizzazione italiana” preferiscono
«chiamarsi fuori dall’universo intossicato delle retoriche politiche e
dei loro linguaggi ossificati. Segnalando così il clamoroso vuoto di
rappresentanza che rischia di minare alle radici il nostro sistema
politico».
Oggi, con la crisi dei partiti sotto gli occhi di tutti, mentre
sentiamo sempre più alta la voce di ciò che riusciamo
a chiamare solo “antipolitica”, vediamo bene che quell’allarme non era
esagerato.
twitter: @LeopoldoFabiani
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