La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

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Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

martedì 27 dicembre 2011

Il Risorgimento in Calabria una pagina dimenticata

I fratelli Bandiera
 

Il Risorgimento in Calabria
una pagina dimenticata.
1. Cosenza – Cronaca della
sommossa del 15 Marzo1844
conclusasi con 4 Caduti, 5
fucilati e un suicidio.
2. Nel giugno 1844 lo sbarco
dei Fratelli Bandiera neutralizzato
dalla polizia borbonica. Altri 2
Caduti e 9 fucilati.
Il sacrificio ebbe una larga eco
in tutta Europa e guadagnò nuovi
proseliti alla causa italiana.

di Maddalena Arnoni


Gli avvenimenti di Cosenza del 15 marzo 1844 furono il primo germe di tutte le successive agitazioni che portarono all'Unità italiana ed ebbero vasta risonanza. Videro protagonisti e fautori della sommossa Nicola Corigliano e Francesco Salti, patrioti cosentini.

Pertanto vorrei ricordare la cronaca di quella giornata servendomi dei documenti esistenti, riannodandoli in una narrazione semplice, non senza prima rivolgere uno sguardo al clima storico che rese possibile la genesi di quella coraggiosa iniziativa.

Negli anni che precedettero la sommossa, le condizioni di Cosenza e della provincia erano tristi sotto il governo borbonico:erano stati aboliti la bandiera e l'esercito; il lavoro mancava, l'indigenza, il malcostume, l'ignoranza e il brigantaggio dilagavano. Le fonti di ricchezza erano inaridite.

Il procuratore generale Dalia più volte nei suoi rapporti ai ministri parlava della miseria in cui versava tutta la provincia; e, nonostante ciò, nel 1843 venne ad inasprire gli animi della popolazione il decreto del 31 marzo che dichiarava in modo inappellabile “Demanio dello Stato” l`agrosilano, riducendo ad un terzo il compenso degli usi dovuti ai cittadini di Cosenza e dei Casali, i quali si videro costretti a subire le ingiuste decisioni.

Ecco allora un gruppo di giovani colti, amanti di novità, intolleranti di giochi imposti in mezzo ad una massa inerte, abbrutita dall'ozio, dalla miseria, che si sforzava d'infondere in quella massa un po' di vita, di dirigerla verso una meta luminosa.

Dopo una lunga preparazione in casa Laurelli, alla Giostra Vecchia, nella farmacia Salfi e Anastasio, un primo tentativo fallì. In seguito, Nicola Corigliano e Francesco Salti del comitato cosentino della Giovane Italia, avuta notizia che altre province, tra cui quelle abruzzesi, erano pronte a proclamare un governo costituzionale, stabilirono, con un programma preciso, di condurre la sommossa il giorno 15 marzo 1844.

Gli accordi furono presi nell'antico caffè Gallicchio con Italo-albanesi dei paesi circonvicini, per la realizzazione del seguente piano d'azione: nella mattina del 15 marzo si dovevano riunire tutti i cospiratori nella Piazza dell'Intendenza (poi Prefettura), per dare I 'assalto al palazzo e obbligare l’Intendente a riconoscere il nuovo governo costituzionale e a far cedere le armi alla gendarmeria reale.

Una colonna di italo-albanesi, aderenti alla Giovane Italia,c apitanata dal cosentino Francesco Salfi domiciliato a San Benedetto Ullano, avrebbe dovuto recarsi nella contrada “Coda di Volpe” nella notte del 14 marzo ad aspettare l’alba.

Un`altra colonna,al comando di Nicola Corigliano, si sarebbe radunata la stessa sera su Montechierico nei pressi della casa di compagna di Rosa Puntieri, moglie del Corigliano, da dove era visibile una parte della Giostra Nuova e della Piazza dell’Intendenza, nella quale sarebbero accorsi al sopraggiungere della colonna Salfi.

Tutti i cospiratori quella notte convennero nella contrada Settimo dove comincia il bosco dei Magdalone denominato Coda di volpe.

C'era la gente venuta da Castrolibero ,da Marano Marchesato, da Gesuiti, da Cerzeto, da San Benedetto Ullano.

Un`ora prima dell'alba bussarono ad una tavema e bevvero del vino, indi si avviarono alla volta di Cosenza non senza avere prima sparato sul ponte di Emoli quattro razzi luminosi in una notte di novilunio ed in condizioni atmosferiche favorevoli, per segnalare l'inizio della marcia ai cosentini radunati sotto la guida di Nicola Corigliano.

Appena il chiarore del giomo si diffuse nella clan, dalla casa Puntieri si udirono grida e spari: era infatti la colonna Salfi, all'insegna di una bandiera tricolore retta da un contadino albanese, che aveva percorso indisturbata tutta la città che giaceva ancora nel sonni della schiavitù.

I cosentini, secondo l'intesa, scesero dalie pendici di Montechierico e, raggiunta la Piazza, si unirono agli altri. Ma si aprì un imprevisto conflitto a fuoco perche la polizia aveva avuto sentore della sommossa ed era riunita nel Palazzo dell'Intendenza,

Caddero Francesco Salfi, Giuseppe De Filippis , Francesco Coscarella e Michele Musacchio, mentre dall'altra parte perse la vita it tenente della gendarmeria Galluppi, figlio del celebre filosofo di Tropea. Cominciarono subito dopo numerosi arresti, persecuzioni e confessioni. Il 10 luglio, da una Commissione militare, ventuno furono condannati a morte , dieci a trent'anni di carcere , dodici a pene minori.

La pena capitale, per ordine pervenuto da Napoli, doveva essere eseguita solo per sei designati della Commission , e i sei designati furono: Nicola Corigliano e Antonio Raho di Cosenza, Pietro Villacci di Napoli, Raffaele Camodeca di Castroregio, Giuseppe Franzese di Cerzeto, Sante Cesareo di San Fiti ,

Antonio Raho si avvelena prima dell' esecuzione . L' 11 Luglio alle ore 22 i cinque giovani mostrando molta rassegnazione , furono giustiziati . Lo Storino racconta che arrivati nel Vallone di Rovito , Nicola Corigliano notò che il Vitlacci tentava di non mettere i piedi nudi in una pozza d'acqua e scherzosamente gli chiese :"Hai paura di prendere un raffreddore?" , dimostrando con quella sovrumana battuta tutto il suo distacco e il suo coraggio di fronte alla morte.

Di questi avvenimenti hanno trattato Raffaele Conflenti, Stanislao De Chiara, Romeo Paone e Giuseppe Storino. I Martiri Cosentini sono poco noti e poco ricordati



Lo sbarco dei Fratelli Bandiera in Calabria

ITINERARIO

Foce del flume Neto, localita detta Lagonetto (a nord di Crotone tra Punta Alice e Capo Colonna) - Crotone (Masseria Poerio) - Santa Severina (pressi) - Belvedere Spinello - Gipso (ansa del Neto) - Cerenzia - Caccuri (localitci Vordò) - Stragola (canale) - S. Giovanni in Fiore (Monte Gimmella)- Cosenza (Carcere e Tribunale Mititare - Vallone di Rovito - Chiesa di S. Agostino - Duomo).



Attilio ed Emilio Bandiera, nati dal barone Francesco, alto Uffi­ciale della Marina austriaca, e da Anna Marsich (Attilio a Spoleto il 24 maggio 1810, Emitio a Venezia it 20 giugno 1819), furono avviati alla carriera militare e formati nell'Accademia della Imperiale Regia Mari­na in Venezia.

Insofferenti verso il regime austriaco, nutrirono presto sentimenti di ribellione e iniziarono a cospirare durante la guerra di Siria nel 1840, nella squadra navale comandata dal padre. Nel 1841 fondarono la società segreta Esperia (dall’antico nome che divenne poi una filiazione della "Giovine Italia", ispirata alle idee di libertà e unita nazionale). Si misero in corrispondenza con il Mazzini e credettero nel 1843, quando scoppiarono i primi moti, che il tempo per insorgere fosse maturo; ma traditi da un certo Vespasiano Micciarelli, infiltrato nella Esperia, furono richiamati a Venezia quali principali cospiratori, disertarono e si rifugiarono a Corfù dove erano già numerosi i rifugiati politici.

Per intercessione della madre, recatasi a Corfù, e della rnoglie morente di Attitio, avrebbero potuto ottenere it perdono imperiale, ma rifiutaro­no nobilmente "per non tradire la patria e l'umanità”,

A Corfù vissero la vita stentata degli esuli, profondendo gli ultimi beni nell'acquisto di armi e mezzi per una eventuale spedizio­ne. Benché dissuasi dal Mazzini che non vedeva nella loro impresa pos­sibità di successo, abbandonata anche I'idea di una spedizione nell' Italia centrale suggerita da Nicola Ricciotti che pure si trovava tra i pro­fughi, decisero di sbarcare in Calabria per aiutare i fratelli liberali calabresi. Da quella regione infatti erano giunte notizie confortanti: Cosenza, Paola, S. Giovanni in Fiore erano insorte. Ma la rivolta cosentina, che quasi coincise con Ia loro partenza dall'isola, era come sappiamo, purtroppo, miseramente fallita.

Nella notte tra il 13 e il 14 giugno 1844 i Fratelli Bandiera parti­rono da Corfù con Ia nave da pesca e trasporto, il San Spiridione, co­mandata dal pugliese Mauro Caputi, già affiliato della Giovine Italia.

Con i fratelli Bandiera si imbarcarono altri prodi: Domenico Moro, Nicola Ricciotti, Anacarsi Nardi, Tommaso Massoli, Giovanni Manessi, Paolo Mariani, Francesco e Giuseppe Tesei, Carlo Usmani, Giuseppe Miller, Pietro Piazzali, Giovanni Venerucci, Luigi Nanni, Giuseppe Pacchioni, Francesco Berti, Giacomo Rocca, Domenico Lupatelli, Pie­tro Boccheciampe, Giuseppe Meluso detto anche Nivaro, che 12 anni prima si era rifugiato nell'Isola col nome di Battistino Belcastro essen­dosi macchiato di uxoricidio e di altri delitti. E proprio costui, poichè aveva conoscenza dei luoghi dove si sarebbe svolta l'impresa, si offri come guida al drappello e la proposta fu naturalmente accolta, poiché s'ignorava tutto il passato dell'uomo.

Cosi sull'umlle "trabiccolo", con i larghi fianchi rabberciati di pece, stivato di segale e veleggiante per il mare Ionio, la presenza. tra quelle anime accese, di Boccheciampe che si rivelerà il traditore, e del brigante Nivaro, simboleggiava in quel viaggio fatale e nel forte contrasto le due Italie di allora: quella della insidia e della servitù, e quella sognata dai poeti, dall'Alfieri in poi, e vaticinata dalla prosa severa di Giuseppe Mazzini.

Nativi di Venezia, di Bologna, di Perugia, del Lazio, della Romagna e delle Marche, quei cospiratori si sentivano comunque figli della Terra Calabra, perché terra italiana. Era la prima volta che Italiani venivano "per offrire aiuto e dare coraggio e sollievo, senza nulla chiedere".

Al tramonto del 16 giugno 1844, sbarcarono alla foce del Neto, a nord di Crotone, fra Punta Alice e Capo Colonna.

Il Neto, "Neathos", con chiaro richiamo etimologico a navi incendiate, secondo una leggenda riportata da Strabone, scaturisce dalle falde nord-orientali dell'imponente monte Sorbella (1.850 m slm.), mai povero di acque, si allarga tra i boschi ed i folti canneti decantati da Teocrito, e dopo settantaquattro chilometri sbocca nel mare Ionio,

Il gruppo marciò nella notte risalendo il corso del fiume, fino a giungere alla masseria Poerio sulla sponda destra del Neto, di proprietà di Filippo Albani, a circa dieci chilometri da Crotone. Era l'alba del 17 giugno. Già strada facendo da alcuni contadini ebbero notizie poco ras­sicuranti sui moti già spenti, confermate anche da Girolamo Calojero fittavolo degli Albani, sopraggiunto con altri due contadini per la immi­nente mietitura.

Nonostante tutto, con nel cuore le tenebre di un sogno fallito, de­cisero di marciare alla volta di Cosenza, dove i recenti moti liberali del 15 marzo lasciavano bene sperare in una sollevazione generale che avrebbero potuto e dovuto essi stessi suscitare, soffiando sulle ceneri ancora calde.

Il popolo calabrese, che non conoscevano da vicino, per antica tradizione era detto fiero e bellicoso, perciò sarebbe stato facile guada­gnarlo alla causa italiana.

Con tali  speranze, attesero la sera, cibandosi con una povera zuppa di fave e dissetandosi con acqua. A sera, poi, partirono lungo le sponde del Neto, procedendo con buona lena, guardinghi nella notte, fin quando, ad un certo punto, si accorsero che Boccheciampe era letteralmente svanito nel nulla. Soltanto dopo si capì che era ritornato sui suoi passi premuroso di avvertire di quanto stava avvenendo le Autorità borboniche della vicina città di Crotone. Gli altri andarono innanzi tutta la notte e all'alba sostarono in un burroncello nei pressi di Santa Severina, ancora nel distretto di Crotone, territorio montuoso ricco di boschi e pascoli. Rimasero nascosti tutto quel giorno martedì 18 giugno e prima di sera ripresero il cammino. Dovevano guadare il fiume e, in contrada Belvedere, affrontare le balze dell'Appennino per raggiungere l'Altopiano silano.

Ma già, in tutti quei luoghi, i Capi Urbani avevano dato l'allarme e attendevano al varco la gente "sbarcata". Ecco per­ché nella notte tra il 18 e il 19, a Gipso, un'ansa del fiume Neto, la spedizione s'imbatteva nell'agguato di forze superiori che attendevano nascoste nell'ombra.

Sotto la guida del Meluso che conosceva quei luoghi passo per passo, perché nativo di S. Giovanni in Fiore, i giovani ardimentosi riu­scirono ad eludere l'attacco e a ripararsi attraverso il territorio di Cerenzia e Caccuri, in località "Vordò" di proprietà della famiglia Lopez da S. Giovanni in Fiore.

C'era una dimora di campagna, una volta antico monastero di frati che, con l'incameramento e la vendita dei beni ecclesiastici, era stato acquistato dai  Lopez. Sulla spianata antistante la casa, all'aperto, in mezzo ad un uliveto, fu offerto loro del vino da un certo Polibio. Subito dope ripresero il cammino in provincia di Cosenza, nel territorio di San Giovanni in Fiore, grosso centro agricolo bagnato dal corso dell'alto Neto e del sue affluente Ampollino. In una bettola, in località Stragola, sostarono per consumare un pasto frugale di pane, formaggio ed alcune cipolle.

Proseguirono il loro cammino e quando giunsero al Canale della Stragola, Improvvisamente furono assaliti da un'orda furibonda di popolo urlante "Eccoli! Eccoli! Arrendetevi.Viva il nostro Re! Viva Ferdinando , scambiando i prodi per stranieri armati. Accerchiati, assaliti, fu inevitabile lo scontro, durante il quale rimasero feriti alcuni, mentre Tesei e Mitler caddero.

Il brigante Nivaro ormai riconosciuto dai suoi ex paesani sfuggì alla cattura e si diede alla macchia.

Dodici furono catturati e condotti al Corpo di Guardia di S. Giovanni in Fiore, presso il quale fu redatto un primo verbale relativo all'arresto.

Descrivere le condizioni del Mezzogiorno d 'Italia di quei tempi richiederebbe una lunga digressione. Basti dire che i Bandiera erano giunti improvvisi e inattesi senza accordi precisi con coloro che potevano comprendere e condividere le loro idee. Pochi esercitavano un'arte o un mestiere: o servivano o coltivava­no i campi o per miseria rubavano coprendosi anche di altri delitti. Così diventavano briganti. Solo più tardi il popolo conobbe la nobiltà del martini; infatti, durante la prigionia e ll processo cominciò ad amarli e poi li venerò come martiri.

Lo stesso Giudice del Circondario, avido di ricompense e ricono­scimenti, volle far credere che coloro i quali erano guidati dal  brigante Nivaro fossero suoi degni compagni "spre­gevoli e pericolosi", come scrisse in data 19 giugno 1841 in un comuni­cato regio riportato dal De Chiara.

II giorno seguente a quella cattura, il 20 giugno, furono por­tate in paese le salme del caduti Miller e Tesei e, dopo essere rimaste esposte in piazza per un giomo, furono pietosamente sepolte nella Chie­sa del Monastero, oggi monumento nazionale, dell'ordine florense fon­dato da Gioacchino da Fiore. Intanto venivano curati i feriti e il 23 giu­gno, secondo gli ordini pervenuti dalle autorità distrettuali, furono con­dotti per la via della Sila, su cavalli e muli, a Cosenza, direttamente al Palazzo dell'Intendenza. Solo Attilio Bandiera fu interrogato, poi rag­giunse i compagni nelle carceri centrali. "Era questo un gran fabbricato che riunisce ancora i Tribunali, il Commissariato di polizia e un deposito) di armi" (Riccardo Pierantoni, Milano 1909).

II Memoriale di Marsiglia riferisce che era permesso accostarvisi e che infinite furono le prove di simpatia e di affetto che i prigionieri poterono ricevere dalla popolazione cosentina.

II processo fu indubbiamente influenzato dall'autorità politica. L'imputazione principale era di cospirazione ed attentato all'or­dine pubblico per far cambiare il Governo e far insorgere i sudditi contro l'autorità reale. Seguivano le accuse di  sbarco furtivo commesso a mano armata nel Regno con bandiera Tricolore; d'infrazione alle leggi sanitarie; di resistenza ed attacco alla forza pubblica dei comuni di Bel­vedere Spinello e di S. Giovanni in Fiore; dio detenzione di materiale propagandistico sovversivo.

Avvocati difensori di ufficio furono nominati Cesare Marini, Tommaso Ortale e Gaetano Bova, tre giganti del Foro cosentino. L'incarico doveva servire come apparato scenico, mentre il verdetto era già stato formulato dalla Giuria e prevedeva la morte dei congiurati

Nella foga appassionata della difesa, gli avvocati avrebbe­ro poi sorpassato i limiti della prudenza, rivelando gli intimi convincimenti della loro fede politica. Quasi un’autoaccusa.

Il 16 luglio incominciò il processo dinanzi ai giudici militari. L'intendente, il commissario di Polizia ed il colonnello Zola in­formavano il De Carretto, ministro di polizia,  dei progressi del processo. Il governatore Dalla riferiva al Ministro di Grazia e Giustizia.

La Commissione si dichiarò competente a procedere al giudi­zio per i fuoriusciti esteri, riservandosi all’esito di tale giudizio di discutere la competenza per gli arrestati calabresi. Furono ascoltati tutti i testimo­ni di accusa. Non si voleva I'imbarazzo di prove difensive che vennero respinte.

Così nell'aula della Gran Corte Criminale la voce dell'accusa ri­sonò sola. Il Commissario del Re dette le sue conclusioni: tutti colpevoli di Lesa Maestà e per tutti pena capitale. All'ultimo minuto tre ottennero la grazia, perché l'esecuzione doveva essere limitata solo a nove degli arrestati esteri compresi tutti i capi e coloro che avevano avuto più influenza nella rivolta.

La sentenza, emessa con un certo ritardo per dare la parvenza di ponderata giustizia, fu data ii 24 luglio 1844 in nome di Ferdinando II ed in cinquecentocinquanta copie nei giorni successivi, fu diffusa nel Regno ad ammonimento degli animi indocili.

I prigionieri, ammanettati per udire la sentenza, furono condotti ad uno ad uno davanti al Capitano relatore nella stretta corte della pri­gione.

Nelle ore precedenti l'esecuzione furono assistiti dall'abate Beniamino De Rose e s'intrattennero sui destini dell'Italia, sull'immor­talità dell'anima secondo it Clarke; scrissero le ultime lettere alla fami­glia. Giuseppe Pacchioni ritrasse i compagni in quelle ultime ore.

All'alba del 25 luglio furono spalancati i cancelli del carcere e comparve il triste corteo che si dispose ad uscire per recarsi al luogo del supplizio fra due doppie file di soldati armati di moschetto. I condannati indossavano un nero camiciotto e le teste erano coperte con veli bruni che ricadevano sulle spalle.

Il corteo usciva dall'abitato e procedeva lentamente per la via della campagna, verso il Vallone di Rovito.

I balconi, le terrazze, i poggi, le colline adiacenti brulicavano di gente alle sei del mattino, muta e oppressa da un cupo dolore.

Passarono dinanzi alla Chiesa di Sant'Agostino e Domenico Moro, additandola, domandò all'abate De Rose se colà avrebbero trovato ripo­so le loro salme: e cosi era stato deciso.

Poi nell'aria nitida mattutina, un canto erompe ad un tratto, alto e chiaro, vibrante di passione:

Chi per la patria more

vissuto è assai;

La fronda dell'allor

non langue mai.

Piuttosto che languir

sotto i Tiranni,

è meglio di morir

sul fior degli anni........

Erano i Martini che intonavano un coro dell'opera "Donna Caritea" del Mercadante, con qualche variazione ai versi. I liberali avevano cambiato due versi, e il coro divenne popolarissimo in Italia.

Dopo I'esecuzione un grave silenzio scese  non solo su Cosenza, ma sull'Italia. Ebbero degna sepoltura nella vicina Chiesa dei Frati Agostiniani e si dice che I'abate De Rose collocò all' interno delle bare una bottiglia contenente un foglio di carta con le complete generalità di ciascuno. Ciò, successivamente, quando ne fu fatta l'esumazione, rese pos­sibile identificare i resti dei martini con la massima precisione. A Parigi, a Londra, gli esuli coniarono una medaglia commemorativa e Giuseppe Mazzini, Laura Beatrice Oliva Mancini, Gabriele Rossetti, Giuseppe Ricciardi ed altri celebrarono il martirio di Cosenza con prose e poesie. A Cosenza ai Fratelli Bandiera è stato innalzato un semplice sa­crario nel Vallone di Rovito. Dopo l'unificazione d'Italia le loro salme furono traslate nei pae­si d’origine. Le salme di Attilio ed Emilio Bandiera il 16 giugno 1867 ven­nero portate a Venezia, accolte dalla madre distrutta dal dolore, e tumulate nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, tra le tombe gloriose dei Dogi.


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