La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

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Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

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romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

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Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

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romanzo di Gianni Zanata

lunedì 26 dicembre 2011

Luciano Bianciardi quarant'anni dopo



Luciano Bianciardi quarant'anni dopo


Sul «Messaggero» di qualche giorno fa, Matteo Nucci celebra con questo articolo il quarantennale dalla morte di Luciano Bianciardi, intellettuale per tutta la vita all’opposizione, traduttore di grandi classici e autore di un testo cruciale nel nostro Novecento letterario che è «La vita agra», dove l’aspra critica all’establishment culturale, a cui peraltro Bianciardi apparteneva, si mescola al racconto di un Italia stravolta e snaturata dal boom economico.
Matteo Nucci

Luciano Bianciardi

Pare che l’autenticità la riconoscesse dalla voce. I finti intellettuali come i finti amici li scansava immediatamente, semmai li prendeva in giro e ne faceva oggetto di un sarcasmo a volte feroce. Perché era in lotta contro la grettezza e la meschinità e cercava l’abbraccio vero, onesto, la bevuta e la mangiata con braccianti e intellettuali, basta che fossero uomini, come lui. Eppure morì solo. Quasi solo. Quarant’anni fa, dopo quasi tre settimane di agonia in una stanza del San Carlo di Milano. Negli anni che seguirono, Luciano Bianciardi, grossetano classe 1922, fu dimenticato. Ne coltivarono il ricordo gli amici, gli artisti di strada, i pittori e i fotografi con cui aveva condiviso il pane e il vino. Pochissimi continuarono a leggerne i libri. Poi arrivò Pino Corrias a dare alle stampe nel 1993 una biografia che viene oggi ripubblicata (Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Feltrinelli). Poi arrivarono Massimo Coppola e Alberto Piccinini autori di un film straordinario (Bianciardi!) e curatori assieme a Luciana Bianciardi, la figlia, dell’intera opera (il cofanetto con il film e i due “antimeridiani” è stato ripubblicato ora in un’edizione speciale: Luciano Bianciardi, Opera completa, ISBN, 2 voll. + DVD).

E così oggi, finalmente, nessuno storce più il naso se si nomina Bianciardi fra i principali scrittori del Novecento italiano e il suo capolavoro, La vita agra, fra le opere decisive. Del resto, in quel libro c’è tutto il suo autore e il suo dolore, c’è tutta l’Italia di quegli anni e tutto il dolore che provoca, in qualsiasi tempo, la perdita delle radici e il rimpianto dell’Eden di un mondo fatto di relazioni chiare e parole dirette. Quel mondo Bianciardi lo abbandonò presto. Era la Maremma che girava assieme all’amico Cassola su un bibliobus di sua invenzione per portare i libri nelle campagne. Era la casa natia, le osterie, la gente che si conosceva per nome, la moglie e due figli. Lasciò tutto per rincorrere una “solenne incazzatura”. Quell’incazzatura raccontata ne La vita agra: i 43 minatori morti nell’esplosione della miniera di Ribolla. Era il 1954. Il protagonista del romanzo, alter ego dello scrittore, prese un treno per Milano dove, da bravo anarchico, progettava di far esplodere i palazzoni dei padroni. Ma l’utopia anarchica si sarebbe spenta in fretta. Quel che restava, oltre al freddo, i cieli grigi e l’indifferenza della metropoli, era il cosiddetto miracolo economico. “I miracoli veri” scrisse “sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve. I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano a quest’altro miracolo balordo. (…) Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici (…). A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo”.

L’opposizione milanese di Bianciardi fu però un’altra donna, una famiglia parallela, e una vita faticosissima pur di sbarcare il lunario. L’impiego in Feltrinelli (da cui fu licenziato perché “strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile”), l’odio per le “segretariette secche” che usano a sproposito il loro piccolo potere, il lavoro di traduttore in casa (inarrivabili le versioni di Miller) dal mattino alla sera, con l’incubo dei conti da pagare e il terrore dei ‘tafanatori’, rappresentanti pronti a tutto pur di vendere. Tra i paradossi della città (il traffico, la solitudine, i morti in strada, il perenne frastuono – “ma la gente non protesta per il fragore dei martelli vibratili. La gente protesta semmai se nella casa di fronte tengono il grammofono troppo alto e arrivano a cascata le note di Vivaldi”), solo il rifugio dell’amore e dell’amicizia. Ossia, a casa, la vicinanza della donna amata e il sesso. Fuori, invece, gli amici del bar Giamaica di Brera, dove elaborare un futuro: un “neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio”, un mondo non schiacciato dal delirio della produttività e fondato su una graduale rinuncia del non necessario.

Il progetto non sarebbe mai andato in porto e Bianciardi lo sapeva bene. Il suo libro invece ebbe successo. Forse anche troppo. Lo ammirarono addirittura coloro di cui si faceva beffe. Lui fu invitato ovunque. La sua ribellione venne assorbita nello scintillio di aperitivi intellettuali, nella disonestà da cui quella ribellione era nata. Forse fu qui che cominciò la crisi finale? Difendersi dalla povertà e dall’anonimato è dura. Dai soldi e dal successo può diventare durissima. Bianciardi tentò con tutte le sue forze. Indro Montanelli gli propose una collaborazione al Corriere. Lui rifiutò. Preferì scrivere per Il Guerin Sportivo e commentò in una lettera: “Anziché mandarmi via a calci in culo, mi invitano a casa loro”. Abbandonò Milano per Sant’Anna di Rapallo dove immaginò un ritorno a Grosseto. Ma ogni Eden non può che restare solo un sogno. Quella fu l’ultima definitiva delusione. Il Céline italiano, il Miller della Maremma, lo scrittore così poco e così tanto italiano, aveva deciso, ormai. A Giovanni Arpino, pochi giorni prima del ricovero, confessò: “Sto crepando, ma ci metto troppo. Morire è difficilissimo”.

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