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domenica 4 dicembre 2011

Terra d'Oc: Main

Terra d'Oc: Main



Un paio di pagine tratte da un libro bellissimo, di cui abbiamo già parlato e di cui parleremo ancora. Un atto d'amore verso la terra d'Oc e la sua gente.

Marco Aime

Main

Quando io l'ho conosciuta, o inizio a ricordarla, aveva già più di ottant'anni. Dolce, con quegli occhi azzurri sempre sorridenti. Sorridenti di quella forza e quella semplicità di chi sa ancora sorridere dopo una vita dura come la sua. Di chi ha messo al mondo undici figli, anche se il mondo cinque non li ha voluti. Era così allora. Lei parlava spesso di Cirillo, morto a cinque anni di tosse asinina.

Era del 1878 Main, l'anno del re, diceva lei, perchè in quell'anno era salito al trono Umberto I. Nata in tempo per vedere finire un secolo e attraversare gran parte di quello successivo. Due guerre mondiali, vissute entrambe lassù, nella sua valle incastonata tra le pietre. Non sapeva nemmeno il valore dei soldi, lei. Viveva così, lavorando e mangiando poco, di quel poco che c'era.

Adorava suo figlio Lencin. Erano sempre in giro in tre: lei, suo figlio e il cane. Dove mette il piede uno, lo mette l'altro, diceva la gente del paese. Sempre insieme, lei così minuta e così forte, su per quei sentieri rapidi e scontrosi.

Non sapeva nemmeno cosa fossero il mal testa o il mal di denti, racconta Matilde, sua nipote. Era senza denti, eppure mangiava delle croste di pane dure così! Ha lavorato tutta la vita e non l'ho mai sentita lamentarsi una volta. Lei non si lavava quasi mai, a quel tempo era così. Allora, quando era già anziana, noi le lavavamo la testa e lei si lamentava. Adesso i capelli mi scapperanno tutti! diceva. E quando le lavavamo i piedi era la stessa cosa: Ecco, adesso avrò freddo ai piedi tutto il tempo!

Negli ultimi anni l'avevano portata a Savona, dalle figlie. A quelli che andavano a trovarla raccontava della televisione. Era la prima volta che la vedeva. Diceva che aveva visto tale e tal altro, il figlio di questo e di quella... tutta gente di Roaschia. Nello schermo lei riconosceva la sua gente, riportava ogni cosa al suo mondo di sempre, Roaschia. Alla domenica si vedevano solo e sempre bambini con i pantaloni corti, che giocavano al pallone. Poi spiegava stupita di quella gabbia, che c'era a casa di sua figlia, che ci entravi dentro e ti portava su, fino all'ultimo piano. Lo raccontava calma, sempre con il sorriso. Serena, di quella serenità che solo chi ha attraversato guerre e fame può avere. Di chi sa come va il mondo e che bisogna prenderlo per quello che è, come quella valle stretta e piena d'ombra.

(Da: Rubare l'erba, pp. 63-65)




Marco Aime, nato a Torino nel 1956, insegna Antropologia culturale presso l'Università di Genova.

Marco Aime
Rubare l'erba
Ponte alle Grazie, Firenze 2011
12 Euro

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