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Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

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giovedì 14 luglio 2011

I termini di un paragone. Analogie e coincidenze nelle opere di Pasolini e Foucault

da MicroMega

I termini di un paragone. Analogie e coincidenze nelle opere di Pasolini e Foucault

Le vite e le opere di Pier Paolo Pasolini e Michel Foucault sono caratterizzate da numerose coincidenze, risonanze e convergenze: anticipiamo un saggio di Wu Ming 1 tratto dalla Nuova Rivista Letteraria, semestrale di letteratura sociale.

di Wu Ming 1

Nel corso degli anni, leggendo diversi libri di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Michel Foucault (1926-1984), mi sono reso conto di numerose coincidenze, risonanze e convergenze, non solo tra le loro opere, ma anche tra le loro vite. Non posso dire con sicurezza di averle còlte per primo: su entrambi i suddetti è ormai disponibile una letteratura sterminata, inassimilabile da chiunque. L'ermeneutica pasoliniana e quella foucaultiana producono a getto continuo nuove «letture» più o meno pertinenti, e nelle varie lingue i libri si contano a centinaia, forse migliaia. Può dunque darsi che altri abbiano già steso «appunti» simili ai miei. Al momento, però, ne dubito. Pur seguendo - nei limiti delle mie possibilità e competenze - il dibattito su Pasolini e su Foucault, e avendo trovato alcuni (pochi ma importanti) riferimenti incrociati, non mi è ancora capitato di leggere una trattazione dei molti parallelismi fra i due autori. Cosa sorprendente, dato che certe analogie, come suol dirsi, saltano agli occhi.

Ho preso la decisione di rendere pubbliche queste «noterelle» dopo aver letto il recente libro di Roberto Esposito Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi, 2010). Esposito propone una genealogia alternativa della nostra filosofia, un phylum di alterità e critica al potere che include «non-filosofi» come Leopardi e Pasolini, oltre a pensatori/politici come Gramsci, Tronti, Negri etc. Un capitolo del libro è dedicato a Pasolini e alla sua «biopolitica»; in parole povere: al suo partire sempre dai corpi, al suo descrivere i modi in cui il potere incide sui corpi i propri codici, alla disperata riflessione su come i corpi potrebbero resistere a tale codificazione. Per Pasolini, è noto, scrivere e militare significava «gettare il proprio corpo nella lotta».

«Biopolitica» è un concetto introdotto da Michel Foucault nelle pagine finali de La volontà di sapere (1976), primo volume di una progettata - e rimasta incompiuta - «Storia della sessualità». E il corso di Foucault al Collège de France per l'anno 1979 si intitolava: «Nascita della biopolitica». La trattazione di Esposito ha rafforzato la mia convinzione che si possa stabilire una connessione forte tra lo scrittore italiano e il filosofo d'Oltralpe.

Cosa sapevano l'uno dell'altro?

Non risulta che Pasolini fosse un lettore di Foucault: nei suoi scritti non ho trovato alcuna menzione del filosofo francese. Eppure negli anni Sessanta il futuro polemista «corsaro» studiò con grande interesse gli strutturalisti (lo testimoniano i saggi raccolti nel 1972 in Empirismo eretico), confrontandosi con le teorie di Roland Barthes e altri autori di quella temperie. La stessa temperie da cui stavano emergendo post-strutturalisti come Foucault e Deleuze. Inoltre, Pasolini lesse i libri di Pierre Klossowski sul marchese De Sade, tanto che Klossowski è citato, con felice anacronismo, in un dialogo di Salò. Klossowski era un buon amico di Foucault, e Sade era uno degli oggetti di studio prediletti da quest'ultimo, che se n'era occupato sin dai tempi di Storia della follia nell'età classica, opera concepita e scritta nei tardi anni Cinquanta. A ispirare l'interesse foucaultiano per Sade era stato Georges Bataille, altro scrittore letto da Pasolini durante la stesura di Salò.

A conti fatti, c'erano tutte le «precondizioni» per una conoscenza di Foucault da parte di Pasolini. Nondimeno, sembra plausibile affermare che, quando Pasolini morì nel novembre 1975, Foucault non fosse ancora entrato nel suo radar. Mi si lasci introdurre un elemento di "ucronia", un come-sarebbe-potuta-andare: se Pasolini fosse sopravvissuto, probabilmente avrebbe letto gli scritti foucaultiani sulla sessualità, trovandovi riflessioni molto vicine alle sue. Mentre Pasolini vergava la sua Abiura della «Trilogia della vita», Foucault stava scrivendo La volontà di sapere.
E' d'altronde possibile che, durante la stesura de La volontà di sapere, Foucault avesse tra i suoi riferimenti Pasolini. Del fatto che avesse letto Pasolini abbiamo addirittura una testimonianza autografa.

Il 23 marzo 1977, quasi un anno e mezzo dopo la morte di Pasolini, Le Monde pubblica una recensione del suo documentario Comizi d'amore, proiettato di recente in una retrospettiva parigina. L'autore della recensione, intitolata «I grigi mattini della tolleranza», è proprio Michel Foucault. Quest'ultimo legge il film del '63 alla luce delle analisi successive di Pasolini («corsare» e «luterane»), che implicitamente fa coincidere con le proprie. Foucault dà mostra di aver letto gli Scritti corsari e visto svariate altre pellicole pasoliniane, a cominciare da Mamma Roma. Ecco gli ultimi capoversi dell'articolo:

«Il film [...] può servire da punto di riferimento. Un anno dopo Mamma Roma, Pasolini continua su ciò che diventerà, nei suoi film, la grande saga dei giovani. Di quei giovani nei quali non vedeva affatto degli adolescenti da consegnare a psicologi, ma la forma attuale di quella "gioventù" che le nostre società, dopo il Medioevo, dopo Roma e la Grecia, non hanno mai saputo integrare, che hanno sempre avuto in sospetto o hanno rifiutato, che non sono mai riuscite a sottomettere, se non facendola morire in guerra di tanto in tanto. E poi il 1963 era il momento in cui l'Italia era entrata da poco e rumorosamente in quel processo di espansione-consumo-tolleranza di cui Pasolini doveva redigere il bilancio, dieci anni dopo, nei suoi Scritti corsari. La violenza del libro dà una risposta all'inquietudine del film. Il 1963 era anche il momento in cui aveva inizio un po' ovunque in Europa e negli Stati Uniti quella messa in questione delle forme molteplici del potere, che le persone sagge ci dicono essere "alla moda". E sia pure! Quella "moda" rischia di rimanere in voga ancora per un po' di tempo, come accade in questi giorni a Bologna.» (traduzione dal francese di Raoul Kirchmayr, tratta da Aut Aut n. 345, «Inattualità di Pasolini», gennaio-marzo 2010)
[L'ultima frase è, ovviamente, un riferimento alla rivolta di massa seguita all'uccisione di Francesco Lorusso.]

A pensarci, è alquanto implausibile che Foucault - studioso del sadismo, dei meccanismi disciplinari e del rapporto sesso-potere - non avesse visto Salò, proiettato in anteprima al Festival di Parigi il 22 novembre 1975, dopo la morte violenta del suo autore e regista.

Le courage de la vérité
Che Foucault, negli ultimi anni della sua vita, avesse in mente il percorso poetico/critico e le riflessioni di Pasolini, parrebbe evidente anche dal titolo del suo ultimo corso al Collège de France (1984), quello dedicato al concetto di parresìa, ovvero al «parlare franco», al «discorso veritiero» della cultura greca. Il corso si intitolava: «Il coraggio della verità», e a quanto mi consta, nessuno ha riconosciuto la citazione pasoliniana. Eppure l'espressione figura uno degli scritti più conosciuti del Pasolini corsaro: «Il romanzo delle stragi», noto anche col titolo «Che cos'è questo golpe?», uscito sul Corriere della sera il 14 novembre 1974. Pasolini scrive (corsivi miei):
«Il potere [...] ha escluso gli intellettuali liberi [...] dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe obiettare che io [...] potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico [...] compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.»

Due vite

Pasolini e Foucault erano quasi coetanei. Nacquero a quattro anni di distanza l'uno dall'altro e furono battezzati con due nomi. Si chiamavano entrambi Paolo: Paul-Michel Foucault e Pier Paolo Pasolini.
Nacquero e crebbero in provincia, sospesi tra città e campagna: Foucault tra Poitiers e la fattoria dei nonni a Vendeuvre-du-Poitiers; Pasolini tra Bologna e Casarsa. Ebbero un rapporto forte con la madre (che sarebbe loro sopravvissuta) e di quasi estraneità col padre (che sarebbe morto prima di loro). Vissero l'occupazione tedesca dei rispettivi Paesi, e nelle loro educazioni ebbe un ruolo importante la Resistenza (più tragicamente nel caso di Pasolini, che perse il fratello Guido).
Più o meno alla stessa età si iscrissero ai rispettivi partiti comunisti: Pasolini nel 1947, Foucault nel 1950. Ne uscirono due anni più tardi, e in malo modo: Foucault nel 1952, in polemica con l'antisemitismo diffuso nel PCF; Pasolini espulso dal PCI nel 1942, dopo lo scandalo di Ramuscello. Per la diversa natura dei due partiti (quello francese tetragonamente stalinista, quello italiano meno rigido e più dotato di «contrappesi» quali l'eredità di Gramsci), mentre la rottura di Foucault fu assoluta, Pasolini poté ristabilire un rapporto e un confronto, seppure a tratti molto critico.

Si stabilirono nelle capitali dei rispettivi Paesi. Attraversarono marxismo e psicanalisi. Vissero la loro attività intellettuale in modo «militante» e, in modi diversi, polemizzarono con la «nuova sinistra» nata dal '68. Viaggiarono in Africa e negli Stati Uniti. Si interessarono alle arti underground e alla controcultura USA.
Fin da giovanissimi si scoprirono omosessuali.
Furono aggrediti fisicamente durante o subito dopo «spedizioni» notturne legate al sesso: Foucault fu picchiato a Tunisi nel 1968 (probabilmente da elementi in borghese della polizia politica); Pasolini fu aggredito a Roma diverse volte, fino alla fatidica serata all'Idroscalo.

All'affermarsi dei movimenti di liberazione omosessuale, Pasolini e Foucault ammisero - implicitamente o esplicitamente - di rimpiangere la (o di provare piacere nella) dimensione del segreto e della doppiezza. In una lettera aperta a Calvino dell'8 luglio 1974, poi raccolta negli Scritti corsari, Pasolini si paragonò con un certo compiacimento a Mister Hyde: «Io, come il dottor Hyde, ho un'altra vita.» Foucault, in alcune interviste, descrisse la vecchia, codificata clandestinità in toni sottilmente elegiaci.
Morirono in circostanze legate alla loro ricerca del sesso: Pasolini massacrato all'Idroscalo di Ostia (da chi?) dopo aver rimorchiato Pelosi; Foucault consumato dall'AIDS, probabilmente contratto nelle saune gay di San Francisco.

Una diversa violenza sui corpi

La «Trilogia della vita» (composta dai film Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte) metteva in scena il sesso e il suo "linguaggio", la potenza dell'eros, la lotta contro ciò che blocca il desiderio.
La presa di distanza che Pasolini esprime nella Abiura della «Trilogia della vita» (1975) ha molto in comune con quel che scriverà Foucault un anno dopo nel primo capitolo de La volontà di sapere, intitolato «Noialtri vittoriani»: è falsante descrivere il rapporto tra sesso e potere solo in termini di repressione del primo da parte del secondo; «scegliere il sesso non significa di per sé essere contro il potere», perché il «divieto del sesso» non è la strategia universale del potere, semmai è una strategia locale, singolare, che in certe fasi e in certi luoghi prevale sulle altre. Il rapporto tra sesso e potere si basa su un continuo «discorso sul sesso», sollecitato in tanti modi, e dunque una società può esercitare il potere sul sesso anche «iper-sessualizzando» le pratiche e i discorsi.

Scrive Pasolini:
«Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso [...] Nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni Sessanta - in cui cominciava a trionfare l'irrealtà della sottocultura dei "mass-media" e quindi della comunicazione di massa - l'ultimo baluardo della realtà parevano gli "innocenti" corpi con l'arcaica, fosca, vitale violenza degli organi sessuali [...] Ora, tutto si è rovesciato. Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la "realtà" dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico; anzi, tale violenza sui corpi è diventata il dato più macroscopico della nuova epoca umana.»

Negli stessi anni in cui i movimenti omosessuali cominciavano la loro lunga battaglia per libertà e apertura, Foucault e Pasolini misero in guardia tutti quanti (etero e gay), esortarono a sospettare di quella libertà e di quell'apertura, sostenendo che il problema della sessualità non era più - o non era soltanto - la sua repressione. Ipostatizzare una strategia locale (il divieto del sesso), descriverla come operativa sempre e comunque, significava non capire che il rapporto tra sesso e potere può essere di segno molto diverso e non per questo produrre soggettività più libere.

Pensiamo al «berlusconismo», qui inteso nell'accezione più ampia, come manifestazione esemplare, plateale e molto italiana di quello che Jacques Lacan definì il «discorso del capitalista», cioè l'esortazione al godimento immediato, a scapito di ogni regola e legame sociale. Nel «discorso di Berlusconi» non c’è pruderie né tantomeno «divieto del sesso», anzi: c'è la continua titillazione para-pornografica dell’immaginario, e l'accusa di «moralismo bacchettone» è usata come clava contro chiunque si azzardi a criticare l'andazzo corrente. E’ precisamente lo scenario dell’Abiura.

Il «discorso di Berlusconi» dimostra anche il rapporto tra potere e sesso è fatto di strategie diverse tra loro, mai riducibili ad unum, a un'unica logica a cui ricondurre ogni mossa. Basti un esempio: nell'Italia berlusconizzata si auto-alimenta da tempo un circolo vizioso tra incitazione all'omofobia (con sempre più episodi di violenza di strada) e rutilante esibizione/esaltazione del gay famoso e possibilmente di destra (da Platinette a Signorini a Lele Mora, passando per Dolce & Gabbana).
Il potere non si basa sul divieto del sesso, ma sulla continua sollecitazione di un discorso sul sesso, che può sì includere strategie di interdizione e condanna, ma tali strategie interagiscono con altre finalizzate alla spettacolarizzazione, alla mercificazione, alla distrazione di massa, alla creazione di perversi «doppi vincoli» tra l'imperativo «Godi!» e la condizione «Purché tu rimanga al tuo posto».

Postilla su Pasolini e il Dopostoria

Anche alla luce di questo, è riduttivo, anzi, è del tutto fuori luogo dire che Pasolini fu un «reazionario». E' una misera scorciatoia. Certamente gli piaceva épater les modernes, e azzardò contrattacchi partendo dal rammarico per la scomparsa dell' «illimitato mondo contadino», ma in realtà, soprattutto nei suoi anni «corsari» (e già a partire dal '68), Pasolini cercò di attaccare il nemico non nelle postazioni che stava abbandonando, bensì in quelle che stava per occupare.
Si ricorda sempre l'incipit «Io sono una forza del passato, / solo nella tradizione è il mio nome», ma quei versi andrebbero riletti ponendo attenzione alle prime quattro parole: «Io sono una forza». Il tempo è il presente, e non c'è un accasciarsi nella perdita, non c'è facile melancolia: il poeta è una forza, una forza che viene dal passato ma agisce nel presente, anzi, nel presente avanzato. Il poeta sta assistendo ai «primi atti del Dopostoria» da una postazione paradossalmente privilegiata («dall'orlo estremo di qualche età / sepolta...»). E' la postazione di chi, incarnando la cesura tra tradizione e futuro, intuisce cosa riservi quest'ultimo e può aggirarsi in esso, «più moderno d'ogni moderno».

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