La Mostra
Presentazione di Marco Delogu
Adriano Mauri ha aspettato questo lavoro per un lungo periodo, probabilmente era tutto dentro la sua testa e le sue visioni da anni.
E questo è un lavoro basato sull’attesa tramite un procedimento temporale che si rifà alla tecnica fotografica: Mauri aspetta sulla superficie della terra, alla luce piena, uomini che arrivano dal profondo buio, dal nero (mi ricorda strane analogie capovolte con il lavoro di camera oscura quando la carta si riempie di nero e grigi) e li isola su un fondo bianco, li stacca dal mondo: bastano loro, quei corpi che conducono a quelle facce, che raccontano vite e fatiche, e che dicono tutto nel modo più naturale, mai un sensazionalismo.
Uomini dritti e sguardi dritti, foto secche e molto belle.
La vita di Adriano Mauri è la fotografia (in realtà sarebbe più giusto dire che la fotografia è entrata nella vita dei “Mauri” da alcune generazioni tramite un bisnonno pioniere dell'arte fotografica), e lui la conosce e ci lavora dentro: questo lavoro nasce dalla grande tradizione del ritratto novecentesco, ma soprattutto dalla vita di Adriano e dalla sua appartenenza alla sua terra e al suo popolo.
Marco Delogu, giugno 2011
Note dell'autore
Esponente di quella sparuta avanguardia che a fine Ottocento aveva già fatto della fotografia un mestiere, Mauri in quella primavera era diretto in Sardegna.
La famiglia di Amedeo Modigliani, a cui lo legava una vecchia amicizia, lo aveva incaricato di fotografare terreni e proprietà che i Modigliani possedevano nell’isola, terreni su cui sorgevano diverse miniere.
In quella terra di frontiera che era la Sardegna di quei tempi, la grande industria mineraria stava tracciando un orizzonte di sviluppo ed Evaristo Mauri, complice l’amore per una carlofortina conosciuta a Buggerru, decise di rimanere nell’isola a fare il ritrattista di una borghesia ancora in nuce.
E del benessere che l’indotto minerario stava portando nell’Iglesiente in qualche modo beneficiò anche il figlio Adriano, che per circa trent’anni diresse l’amministrazione di una miniera, e il nipote Giulio che, una volta cresciuto, trovò lavoro come impiegato in una società mineraria.
E Giulio Mauri, mio padre, quasi a voler continuare a intrecciare la storia di famiglia con le miniere, sposò Nunzia, insegnante in una scuola di minatori, figlia di Vito che per trent’anni ha lavorato nella miniera di Monteponi.
Oggi, a quasi 150 anni da quando il mio bisnonno Evaristo Mauri sbarcò in Sardegna, di miniere di carbone ne è rimasta una.
Una in tutta la Sardegna, una in tutta Italia.
La miniera ha sempre fatto parte della mia vita ma mai, nemmeno per un momento, ho pensato di andare a lavorare in miniera. La mia passione, i miei interessi e in qualche modo la mia idea di futuro, sono sempre stati legati alla fotografia.
Ma con la miniera, come tutti quelli che nascono a Iglesias, ho avuto sempre a che fare sin da ragazzino: dalle visite con mio padre agli impianti di S. Giovanni Miniera dove lui lavorava, alle riunioni di famiglia dove i vari parenti, tutti in qualche modo legati alla realtà mineraria, discutevano animatamente su cosa avrebbe riservato il futuro, sino alle prime uscite tra ragazzini che finivano regolarmente al dopolavoro dei minatori dove speravamo che qualche vecchio operaio ci facesse giocare a biliardo o a scopa.
Miniera nei racconti degli amici più grandi che frequentavano l’Istituto minerario, tra le prime scuole superiori ad aprire i battenti a Iglesias, e ancora miniera quando, alla fine degli anni Settanta, ero in piazza con gli altri liceali a protestare contro le prime chiusure degli impianti.
E quando ho cominciato ad andare in giro per imparare a mettere la realtà dentro una cornice, a riempire l’obiettivo della mia macchina fotografica è stata, ancora una volta, la miniera.
Perché Iglesias è miniera, dal centro alla periferia, dai palazzi al paesaggio.
Dovunque si posa lo sguardo c’è la miniera con i suoi colori acidi, le sue architetture imponenti di ferro e mattoni. E miniera c’è anche nelle facce della gente, nello sguardo delle persone che, di generazione in generazione, di miniera hanno vissuto.
Persone, facce, sguardi visti per decenni, gente di miniera che il contesto da miniera faceva sembrare ovvia, quasi scontata, senza niente di nuovo da comunicare.
Ma oggi no, i minatori non sono più gente che incontri dappertutto.
E la miniera è solo una, l’unica rimasta in Sardegna. E loro, i pochi minatori rimasti, una categoria in via d’estinzione.
Sono loro a raccontare la miniera, i loro visi e i loro sguardi. Lo sguardo di chi vive una buona parte del suo tempo nel sottosuolo è diverso, perché riporta alla luce la memoria del buio, un buio che segna l’anima come un tatuaggio.
È un bianco immacolato a fargli da sfondo. Nessun contesto, nessuna posa, nessun colore. Solo loro, in bianco e nero.
Il nero del carbone e il bianco dell’anima di questi straordinari uomini.
Adriano Mauri 2011
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