Sardegna 24
CULTURA
Sangue senza memoria
Itri, nome di un paese sconosciuto del Lazio, in provincia di Latina; nome che nulla dice ai più e che non è neppure uscito dall’anonimato come Avetrana, Garlasco, Novi Ligure. Eppure di sangue si tratta. Sangue senza memoria. Sangue di operai sardi. Cronaca del luglio di un secolo fa, in un paese del sudpontino. Sardi che avevano solcato il mare nell'estate del 1911, nella speranza o nell’illusione di una vita migliore; vittime di quella “caccia all'immigrato” che riempie le pagine di cronaca dei giornali: Rosarno, Castel Volturno. Sardi che a Itri erano andati per costruire la tratta ferroviaria Roma – Napoli, a realizzare materialmente quell'unità fra gli italiani che era stata fatta mezzo secolo prima. La loro colpa? “Rubare” il lavoro agli abitanti del luogo.
Il resto è triste cronaca, obliata (o rimossa) per anni ed anni: «Il sindaco della cittadina, Gennaro D’Arezzo – scrive Stella nella prefazione - per ragioni di bottega clientelare non diversamente da quanto accade oggi sobillò la popolazione contro gli immigrati sardi. Sembra di rileggere tante altre pagine nere scritte da altri sindaci stranieri, contro gli immigrati italiani». Morirono in tre, Barranca, Atzas, Pizzus; numerosi i feriti, e forse anche altri morti di cui nulla si è saputo né si saprà mai. Odio razziale fomentato dalla camorra: i “sardegnoli” (da sempre l’aggettivo è usato in senso spregiativo) andavano linciati, perché lavoravano troppo: «Piegati da una miseria disperata - continua Stella - erano rassegnati a orari, regole e paghe per altri inaccettabili» .
Antonio Budruni, insegnante, con questa pubblicazione porta a compimento un intransigente lavoro di ricerca cominciato nel 1986. Una ricostruzione storica meticolosa seguita ad una scoperta che l'autore non esita a definire «frutto del caso»: «Tanti anni fa mi imbattei, sfogliando i quotidiani sardi dal 1900 al 1914, in una notizia della quale nessuno sapeva nulla». «Chiesi a Budruni – dice Manlio Brigaglia, già ordinario di Storia contemporanea all’Università di Sassari -, di scrivere un articolo sull’argomento per la rivista “Ichnusa”. Era la prima volta che veniva data notizia di quei tragici avvenimenti di cui nulla s'era saputo per più di settant'anni».
Budruni tira le fila di un lungo lavoro, ben documentato: «Si trattava di verificare quanta memoria fosse rimasta nelle famiglie dei protagonisti-vittime di quell’episodio. Pochissimi avevano conservato memoria. Pochissimi l’avevano tramandata». Antonio Gramsci, che all’epoca dei fatti aveva vent’anni, non ne fa menzione nella “Quistione meridionale”, ma il fratello Gennaro nel 1911 aveva firmato la convocazione del comizio di protesta del proletariato sardo contro “l’orrenda carneficina di poveri lavoratori sardi, compiutasi ad Itri da una popolazione selvaggia”.
«La classe dirigente sarda di allora - precisa Brigaglia – si mostrò impreparata a gestire l’urgenza di quei fatti: i sardi ne seppero poco e niente. Per molti aspetti l’intera vicenda poteva somigliare a una gigantesca commedia degli equivoci». La storia non è altro che una serie di scherzi a spese dei morti, diceva Voltaire. Anche gli scherzi possono insegnare qualcosa, sempre che non avesse ragione Elias Canetti quando scriveva che l’unica cosa che si può imparare dalla storia è che da essa non c’è niente da imparare. Neppure da Castel Volturno, da Rosarno. O da Itri.
11 luglio 2011
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