Cultura
08/07/2011 - LETTERATURA
Premio Strega, vince Edoardo Nesi
Lo scrittore stacca i «rivali»
con "Storie della mia gente"
MIRELLA SERRI
ROMA
«E’ stato questo il mio amuleto», spiega emozionato Edoardo Nesi. Pallidissimo, con i riccioli neri che sfiorano il colletto della giacca, senza un filo di abbronzatura, il quarantasettenne scrittore di Prato è appena sceso dal palco del Ninfeo di Villa Giulia. È stato acclamato il vincitore del premio Strega di quest’anno con il suo "Storia della mia gente"(Bompiani) che ha ottenuto 138 voti. Dietro di lui Maria Pia Veladiano ("La vita accanto", Einaudi): con 74 preferenze supera di un soffio Bruno Arpaia ("L’Energia del vuoto", Guanda), che si ferma a 73. Poi Mario Desiati ("Ternitti", Mondadori), 63 voti e Luciana Castellina ("La scoperta del mondo", Nottetempo) con 45 voti.
Nesi mostra l’interno dell’avambraccio: «Il portafortuna è stato il tatuaggio con il nome di Alvarado». Una vittoria avvenuta sotto il nome del padre peraltro inciso sulla pelle: Nesi ha messo al centro del romanzo l’impresa di famiglia. Era dato come il favorito. E la vittoria si è profilata fin dai primi voti scrutinati. «Ancora - dice - non mi rendo conto di aver vinto. Nonostante le previsioni non mi sono mai sentito il premio in tasca. Lo Strega è un terno al lotto. Basta uno scarto di un voto e sei fuori. E poi il mio è un libro anomalo. Molto diverso da quelli che di solito gareggiano. È una via di mezzo tra un reportage e una denuncia, tra un pamphlet e un romanzo».
Il libro parte dalla nascita del Lanificio T.O. Nesi & Figli, la ditta dei suoi bisnonni, che vede la luce «non tanto per il presente quanto per il futuro, per i figli che sono nati e per quelli che verranno». Contro le aspettative iniziali lei si trova a mettere in scena una sconfitta, le armi che vengono deposte nel 2004 con la vendita della fabbrica e la fine della speranza. «Sull'altro braccio e sulla spalla ho tatuato i nomi di Ettore e Angelica. Sono i miei figli e tutto questo voleva indicare la continuità della nostra manifattura». E invece? «Mi sono trovato a fare i conti con l'arrivo della globalizzazione. E con l'incapacità di una classe politica che non ha saputo prevedere le conseguenze. La concorrenza cinese è responsabile solo in parte del fallimento della mia attività. Nel libro c'è una sofferta partecipazione e grande compassione per uomini donne costretti a turni massacranti, a condizioni di vita disumane».
Lei racconta anche il doppio binario della sua vita, la doppia identità diviso tra letteratura e l’industria, entrambi suoi interessi. «Ho anche scritto e diretto il film "Fughe da Fermo", tratto da un mio racconto, che mette in scena una storia di vitelloni di Prato che reagiscono al vuoto esistenziale organizzando gratuiti atti di rivolta. Industriale lo sono diventato perché era la strada “naturale”, diciamo così, che mi si prospettava. Ma poi mi sono appassionato. Nel libro ricordo gli anni del boom, la crescita economica, l'espansione del mercato. Sentivo di appartenere a una generazione vincente. Non voglio peccare di retorica ma la nostra impresa era come una famiglia, conoscevo tutti quelli che vi erano impiegati. Certo io ero il padrone ma ero cresciuto con alcune certezze. Ero sicuro che il mio impegno avrebbe dato buoni frutti per tutti». E invece? «Sono arrivati i primi conti in rosso, l’ossessione dei libri contabili. Alla fine si lavorava non per guadagnare ma solo per mantenere in vita la fabbrica». Nelle sue pagine lei cita spesso Fitzgerald e "Il grande Gatsby". È il suo maestro? «E’ sempre stato il mio scrittore-guida anche se ovviamente è una vetta ineguagliabile. Aver vinto lo Strega comunque mi garantisce una certezza: il mio grido di dolore sulle sorti della piccola industria italiana amplificato dal premio può diventare un urlo, farsi sentire, avere presa, risvegliare la sensibilità sia dei lettori sia della classe dirigente che se ne dovrebbe occupare».
«E’ stato questo il mio amuleto», spiega emozionato Edoardo Nesi. Pallidissimo, con i riccioli neri che sfiorano il colletto della giacca, senza un filo di abbronzatura, il quarantasettenne scrittore di Prato è appena sceso dal palco del Ninfeo di Villa Giulia. È stato acclamato il vincitore del premio Strega di quest’anno con il suo "Storia della mia gente"(Bompiani) che ha ottenuto 138 voti. Dietro di lui Maria Pia Veladiano ("La vita accanto", Einaudi): con 74 preferenze supera di un soffio Bruno Arpaia ("L’Energia del vuoto", Guanda), che si ferma a 73. Poi Mario Desiati ("Ternitti", Mondadori), 63 voti e Luciana Castellina ("La scoperta del mondo", Nottetempo) con 45 voti.
Nesi mostra l’interno dell’avambraccio: «Il portafortuna è stato il tatuaggio con il nome di Alvarado». Una vittoria avvenuta sotto il nome del padre peraltro inciso sulla pelle: Nesi ha messo al centro del romanzo l’impresa di famiglia. Era dato come il favorito. E la vittoria si è profilata fin dai primi voti scrutinati. «Ancora - dice - non mi rendo conto di aver vinto. Nonostante le previsioni non mi sono mai sentito il premio in tasca. Lo Strega è un terno al lotto. Basta uno scarto di un voto e sei fuori. E poi il mio è un libro anomalo. Molto diverso da quelli che di solito gareggiano. È una via di mezzo tra un reportage e una denuncia, tra un pamphlet e un romanzo».
Il libro parte dalla nascita del Lanificio T.O. Nesi & Figli, la ditta dei suoi bisnonni, che vede la luce «non tanto per il presente quanto per il futuro, per i figli che sono nati e per quelli che verranno». Contro le aspettative iniziali lei si trova a mettere in scena una sconfitta, le armi che vengono deposte nel 2004 con la vendita della fabbrica e la fine della speranza. «Sull'altro braccio e sulla spalla ho tatuato i nomi di Ettore e Angelica. Sono i miei figli e tutto questo voleva indicare la continuità della nostra manifattura». E invece? «Mi sono trovato a fare i conti con l'arrivo della globalizzazione. E con l'incapacità di una classe politica che non ha saputo prevedere le conseguenze. La concorrenza cinese è responsabile solo in parte del fallimento della mia attività. Nel libro c'è una sofferta partecipazione e grande compassione per uomini donne costretti a turni massacranti, a condizioni di vita disumane».
Lei racconta anche il doppio binario della sua vita, la doppia identità diviso tra letteratura e l’industria, entrambi suoi interessi. «Ho anche scritto e diretto il film "Fughe da Fermo", tratto da un mio racconto, che mette in scena una storia di vitelloni di Prato che reagiscono al vuoto esistenziale organizzando gratuiti atti di rivolta. Industriale lo sono diventato perché era la strada “naturale”, diciamo così, che mi si prospettava. Ma poi mi sono appassionato. Nel libro ricordo gli anni del boom, la crescita economica, l'espansione del mercato. Sentivo di appartenere a una generazione vincente. Non voglio peccare di retorica ma la nostra impresa era come una famiglia, conoscevo tutti quelli che vi erano impiegati. Certo io ero il padrone ma ero cresciuto con alcune certezze. Ero sicuro che il mio impegno avrebbe dato buoni frutti per tutti». E invece? «Sono arrivati i primi conti in rosso, l’ossessione dei libri contabili. Alla fine si lavorava non per guadagnare ma solo per mantenere in vita la fabbrica». Nelle sue pagine lei cita spesso Fitzgerald e "Il grande Gatsby". È il suo maestro? «E’ sempre stato il mio scrittore-guida anche se ovviamente è una vetta ineguagliabile. Aver vinto lo Strega comunque mi garantisce una certezza: il mio grido di dolore sulle sorti della piccola industria italiana amplificato dal premio può diventare un urlo, farsi sentire, avere presa, risvegliare la sensibilità sia dei lettori sia della classe dirigente che se ne dovrebbe occupare».
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