La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava

La quercia e la rosa, di Ludovica De Nava
Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe. Romanzo di Ludovica De Nava

IN TERRITORIO NEMICO

IN TERRITORIO NEMICO
Romanzo storico sulla Resistenza di Pier Luigi Zanata e altri 114 scrittori - metodo Scrittura Industriale Collettiva

Dettagli di un sorriso

Dettagli di un sorriso
romanzo di Gianni Zanata

Il calcio dell' Asino

Il calcio dell' Asino
Il calcio dell’Asino. Il calvario di un giornale ribelle (1892-1925) e del suo direttore Giovanni de Nava (Giva)

NON STO TANTO MALE

NON STO TANTO MALE
romanzo di Gianni Zanata

sabato 9 giugno 2012

Scritture resistenti in difesa del valore del lavoro

 da MicroMega

Scritture resistenti in difesa del valore del lavoro


Pubblichiamo uno dei racconti contenuti nell'antologia "Lavoro vivo" (Alegre edizioni). Dieci storie – firmate da Carlo Lucarelli, Stefano Tassinari, Gianfranco Bettin, Giuseppe Ciarallo, Maria Rosa Cutrufelli, Angelo Ferracuti, Marcello Fois, Milena Magnani, Giampiero Rigosi e Massimo Vaggi – che parlano del lavoro e della crisi di diritti in Italia. Presentato da Carlo Lucarelli durante il concerto del primo maggio, sponsorizzato dalla Fiom e più che mai attuale dopo la picconata del governo Monti all'articolo 18.

SENZA BUCCIA
di Marcello Fois
A Raimondo Marceddu mettetelo in costume e lui è contento. Non chiedetegli perché. C’è una sicurezza dentro all’orbace, un’armonia tale che persino il suo corpo tozzo diventa bello avvolto da quell’involucro. E poi c’è tutto un altro orgoglio. Con l’abito dei padri pastori a Raimondo Marceddu gli sembra di valere di più, di avere più voce in capitolo. Così è successo che, finito il turno al cantiere, non vedeva l’ora di tornarsene a casa e vestirsi come piace a lui. Ma è cominciata quando era piccolo che lo portavano alla sfilata del Redentore sul carro a buoi col suo costume piccolino e la berritta piccolina e tutti a dire: guarda quella creatura! Lì, lui piccolino, indicato da tutti, era felice come poi, cresciuto, non è stato più…

A Raimondo Marceddu gli hanno insegnato che per vivere bene in un posto bisogna essere in grado di stabilire che il posto in questione è l’unico posto possibile. E questo vale sempre anche quando è chiaro che una scelta così priva di alternative non può che costringere a sacrifici enormi. Il lavoro per esempio: dentro alla terra-costume il lavoro è poco e malpagato, ma bisogna accontentarsi. Dove non ci si accontenta è nella rifinitura dello zippone, nella sfumatura blu profonda del velluto, nella posizione apparentemente distratta della berritta che cade sulla spalla. Ecco finito tutto, il cantiere, la giornata, la fatica, Raimondo se ne torna a casa, che è stata la casa della mamma e, prima ancora, della nonna, se ne va nella sua camera e si spoglia degli abiti civili davanti allo specchio. Resta nudo a guardarsi per un po’, aspetta di capire cosa ci sia realmente dentro quell’immagine di giovane uomo senza un involucro. E quasi sarebbe tentato di stabilire una tendenza biologica al suo appartenere, ma sa bene che in quella precisa fase, nudo davanti a se stesso, cercare un senso è solo dilungarsi sul particolare.

Non lo sa spiegare, ma sente che quel maschio del riflesso ha come un destino scritto nelle forme. Nel polpaccio, nella linea della spalla, nella peluria, nel candore femminile della pelle. Nel tutto che guarda davanti a se c’è un’esposizione che sa di banco anatomico. È una razza adesso, poi già con la camicia candida, arricciata, arriva la cultura. Sarà che il pettorale sotto a quella stoffa pare meno tondo, meno pigro, più asciutto, più virile. E le spalle abbracciate dal velluto sembrano più ampie, quasi che esistesse un rapporto tra essere nella storia e vestirsi della storia. Qui Raimondo Marceddu sente l’orgoglio dello sbandieratore che indossa ghette e giustacuore con i colori della sua contrada.
La sua contrada è il quartiere alto, quello del nonno macellaio e del bisnonno pastore. La sua contrada, Santu Predu, ha, in conto vendita, un cielo azzurrissimo abitato da nubi pesanti. La sua contrada è percorsa dalle staffilate della tramontana e agitata dal maestrale come una femmina che fa vorticare la gonna durante il dillo.
A chiamarla per nome e raccontarla questa autoreferenza corrisponderebbe ad esporsi indifesi all’immagine di se stessi, per questo Raimondo Marceddu non sa che dire in proposito: non è che sapere il nome dei sentimenti cambia i sentimenti, anzi spesso sapere come si chiamano li rende inutili. L’amore diciamo: prima che lo si possa chiamare è già arrivato… Non è di quelle cose che si possa dire: sta arrivando.

Ecco, il suo amore, per esempio, non lo sa quando, non sa come… Raimondo Marceddu è il compasso con cui si può misurare quel sentimento. Fuori di esso è una bestiola inabile a qualunque reazione. Nella notte incerta un faro abbaglia il percorso e quella bestia incapace di attraversare, di fare il salto, si immobilizza a guardare quella luce: troppa chiarezza, come troppa cecità. Ecco perché a quel corpo nudo davanti allo specchio un nome non si può, e non si deve, darlo.
Già con la camicia addosso Raimondo riconosce in se Marceddu Raimondo Giuseppe Serafino, di Dionigi e Pasqua. Alle ghette è de Sos de Tauledda. Fino alla chintorja quando è definitivamente Remundu, o Mundeddu…
Lui per questo momento davanti allo specchio, per questo preciso sentimento ha rischiato di perdere il lavoro. Sì, perché l’ingegnere qualche giorno prima è andato da lui a chiedergli di presentarsi in cantiere anche il sabato successivo.

E lui ha risposto che no, che il sabato successivo aveva preso un impegno. E l’altro a insistere, che era per il suo bene se aveva proposto a lui quel turno, così poteva dimostrare la sua buona volontà. E Raimondo a spiegare che la buona volontà doveva essere reciproca che sì insomma ci voleva un po’ di faccia tosta a chiedere dimostrazioni di buona volontà a uno che da cinque anni veniva pagato in nero e a cottimo. L’ingegnere scuote le spalle come a dire che è pericoloso fare discorsi del genere. “E perché non ti rivolgi al sindacato?”, lo provoca. Raimondo allarga le braccia.
“Ci vediamo lunedì”. Conclude. All’ingegnere scappa da ridere per l’incredulità. “Lunedì non c’è bisogno”, gli risponde. “Martedì allora”, dice Raimondo avviandosi verso l’uscita del cantiere. Poi, cambiando idea, torna indietro, raggiunge l’ingegnere lo chiama per costringerlo a girarsi.
Quello si gira, si guardano in faccia: “Non è male per niente l’idea del sindacato, no no niente male il consiglio che mi ha dato”, scandisce. L’ingegnere lo guarda a sua volta come fossero passati secoli da quando anche lui credeva in qualcosa, gli attraversa la fronte una fievolissima luce di tenerezza: “Vai, vai”. Lo provoca. “E già che ci sei, quelli del sindacato salutali da parte mia”.
“Li saluto sì”. Il difetto di Raimondo è che proprio non si arrende. “Li saluto”. Ripete.
“Guarda che se devi fare storie anche se non ci torni al cantiere è lo stesso”. Chiude l’ingegnere. “Sei giovane e sei un coglione che non ha capito come vanno le cose da queste parti, quindi se devi andare a fare i tuoi balletti col gruppo folk, vai e non rompere le palle, il doppio turno ci sarà qualcun altro che lo vuol fare, l’avevo proposto a te perché mi eri simpatico. Mi eri”, ribadisce.
“A che ora attacco lunedì?”, chiede Raimondo senza distogliere nemmeno per un secondo lo sguardo.
“Vaffanculo Marceddu”. Gli risponde l’ingegnere andandosene.
“Alle 7,30 lunedì…”

A casa alla madre non ha detto nulla della discussione con l’ingegnere, ci mancherebbe altro. Eppure in un mondo migliore quella madre vedova avrebbe dovuto sapere tutto. Ma il tempo l’aveva fatta cinica, come modificata geneticamente: lei era stata di quelle che alla giustizia ci aveva creduto, ma ora sembrava solo una delle tante che considerano se stessi, la propria sopravvivenza, un motivo sufficiente per fregarsene del prossimo. In altri tempi, se il figlio le avesse raccontato a quale ricatto è sottoposto con quel lavoro tremendo, lei avrebbe rovesciato l’universo per ristabilire un’idea di giustizia, di diritti. Oggi no.

Oggi si dice che quel ricatto è meglio che niente. Si dice che basta aspettare e, magari, arriveranno tempi migliori in cui ognuno avrà qualche opportunità di raccogliere in base a quanto ha seminato. È stata maestra elementare ha visto i cervelli formarsi; ha visto le illusioni crearsi, crescere nei suoi bambini; poi le ha viste morire un attimo dopo il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. E qualche volta si è chiesta fino a che punto fosse stata lei stessa responsabile di tanta, crudele, mancanza di immunità. Lei lo sa bene che Raimondo ha sempre avuto mani d’oro, a plasmare, a disegnare. Sa che la sua testa sa programmare tutto quanto è creativo, fugace, istantaneo, illusorio. Nella sua particolare disciplina ha sentito il dovere di spegnere ognuna di quelle illusioni, ed è diventata quello che è: guardinga, scettica, aggressiva.
Così, tornato a casa senza dire una parola si è chiuso in camera sua non tanto per vedere se tutto era a posto per l’esibizione del giorno dopo, ma per recuperare con tenacia, quel sentimento che tutti si sforzano di sottrargli. È solo a quel punto che tutto cambia, Raimondo manovale diventato Mundeddu ballerino assume lo sguardo malandrino del nuorese barroso.

L’ultima donna con cui è stato gli ha detto: “Senza quel vestito addosso sei come un’arancia senza la buccia”. E lui subito ha pensato che volesse riferirsi al corpo, così istintivamente si è coperto i genitali come Adamo quando gli dicono che è finito il bengodi. Allora l’ultima donna con cui è stato gli ha detto che evidentemente lui non aveva capito come era fatta lei e che lei, parlando di buccia, al corpo non ci aveva nemmeno pensato. Ma certo aveva pensato allo splendore dello sguardo. Per questo Raimondo si veste davanti allo specchio: per capire cosa cambia in quello sguardo. E mille volte gli pare di capire, ma altrettante volte è costretto a dichiararsi sconfitto.

“A lui mettetelo in costume ed è contento”, dice la madre, con una punta d’incredulità, che ormai Raimondo c’ha un’età che dovrebbe aver messo su famiglia altrochè starsene in giro a fare balletti. Altrochè sprecare i fine settimana in giro per piazze a fare il buffone. Alla mamma di Raimondo tutta questa mascherata di costumi gli sembra una cosa fatta male, a lei gli sembra roba da peddoni. “Dov’è che andate stasera?”, gli chiede mentre lui sta riponendo con cura il costume in valigia. “A Olbia”, dice lui, “ci hanno chiamato per l’inaugurazione di un centro commerciale”. E lo dice senza nemmeno guardare la mamma. “E bene vi pagano almeno?”, chiede lei.
Dentro quell’almeno lui sente il dolore del mondo.
“Che cosa vuol dire almeno?”. Chiede, ma non è sicuro di voler sentire la risposta. Ma la madre scuote la testa: “Visto che dovete andare a fare i pagliacci in costa almeno fatevi pagare come si deve”. Dice. Raimondo chiude gli occhi: “Tu mi preferivi al bar a fare il bumbone”. Tenta, come un piccolo ricatto. Ma sulla mamma di Raimondo i ricatti non attecchiscono. “Eh ci sarà pure una via di mezzo tra l’alcolismo e sputtanarsi in giro a fare i cani ammaestrati”.

Il fatto è che quando era piccola lei, la mamma di Raimondo, tutti, ma proprio tutti, a scuola, in chiesa, in quartiere, tutti pensavano che il locale fosse una vergogna. C’era lo strascico lungo del ’68 allora e si parlava in italiano, il sardo lo parlavano i peddoni appunto. E costumi manco a parlarne e persino i mobili vecchi si erano dati via per le cucine americane di formica. Ora Raimondo dovrebbe avere le parole e i sentimenti per capire ed avere pena, ma in questa lotta tra pezzenti parole non ce ne sono. Il silenzio è davvero l’unica soluzione. Così sta zitto, la madre se ne va in cucina a guardare la fiction e lui al centro commerciale di Olbia per il colore locale.

Così, l’ultima donna con cui è stato dopo l’esibizione gli ha chiesto che lavoro fa. E Raimondo, che sa molte più cose di quelle che dice, fa di spalle come a rispondere: “Ma proprio di questo dobbiamo parlare?”. Nella domanda di quella donna ci vede, o meglio, ci sente, come un tentativo di percepire una prospettiva. Quasi che lei stesse cercando di capire fino a che punto il maschio con cui si è appena accoppiata possa garantire un futuro. Così, dandosi un’occhiata in giro, e constatando la modestia della camera della ragazza, prova a ribattere con la stessa domanda: “E tu?”, chiede. La donna dice che niente, che fa la stagione. La qualcosa ha un che di poetico, ma poetico non è, perché fare la stagione significa lavorare otto, dieci ore al giorno, e guadagnarne sei se va bene. Tutto qui: nel mega hotel in riva al mare cristallino i peones locali fanno la stagione. Che, a metterla in questo modo, pare proprio che la costruiscano la stagione con tanto di sole a comando e piante che fioriscono e erba che cresce e onde e maree e lune piene per i clienti romantici.

“Non molto diverso da quello che hai fatto tu oggi”, dice lei a un certo punto. E Raimondo a dire che non è esattamente la stessa cosa. E lei a ribattere: “Ah no? E in cosa cambierebbe?”. E lui: “Be’ io faccio un altro lavoro, questo di ballare non è un lavoro”. Così lei fa un cenno scettico con le labbra, che ha molto a che fare con quell’espressione di sua madre che Raimondo ha ben presente. “Sì”, insiste, “io lavoro al cantiere, faccio il manovale”. E mostra le mani come a dimostrare con la pelle ruvida dei suoi palmi quanto sta dicendo. “Un lavoro regolare?”, chiede lei, come se a una domanda debba corrispondere in automatico un’altra domanda. Raimondo la guarda, hanno appena fatto l’amore, ma non ha voglia di scappare come al solito: “Che cosa intendi per regolare”. Chiede, ma solo per prendere tempo. “Regolare”, ripete lei, e basta. “No”, sussurra lui a quel punto, “regolare no”, aggiunge. “E perché?”, incalza lei. Raimondo prende aria nel petto: “Perché le cose vanno come vanno”, gli viene da dire. Lei resta in silenzio per un bel po’, lo guarda, gioca con la medaglietta dell’angelo custode che gli pende dalla catenina in mezzo ai peli del petto. “Mi sono laureata quattro anni fa”, dice piano, quasi rivolgendosi a quell’angelo ignaro, “Lingue e Letterature Straniere, spagnolo e francese e inglese non male”. Poi nient’altro. Per riempire quel silenzio Raimondo si schiarisce la gola: “Diploma di Geometra”, sussurra, e un po’ gli scappa da ridere, perché pensa a quante promesse non mantenute abbia coltivato in quegli anni incoscienti di studi. A lui promisero che il pezzo di carta, quello in particolare, valeva qualcosa. Ma se fosse stato per lui della sua vita avrebbe fatto tutta un’altra cosa, magari meno garantita, ma almeno più soddisfacente. Perché Raimondo era di quelli che disegnavano bene e avevano propensione per le arti, per tutte quelle cose che non danno nessuna garanzia…

Con Elena, così si chiama l’ultima donna con cui ha fatto sesso dopo l’esibizione, si sono scambiati il numero di telefono, che è una cosa assolutamente straordinaria, segno che quell’incontro non è passato inosservato. Infatti durante la strada di ritorno ci sta pensando. Il fine settimana non è andato male, tra mance e tutto hanno racimolato una bella somma. Ora tornano a casa. Via dalle spiagge, nell’interno in cui i trogloditi locali hanno rifugio. La domenica se ne sta andando fuori col furgoncino scassato con cui si muovono per raggiungere hotel e villaggi turistici e dare a chi si prende la briga di arrivare fino in Sardegna, la Sardegna che si aspettano. Raimondo sta pensando a Elena che rifà le stanze e pulisce i bagni, nonostante il centodieci e lode. In confronto il suo quarantadue al diploma fa proprio ridere. Come per telepatia un sms di Elena gli comunica che anche lei lo sta pensando. Raimondo guarda il display e si sente come il guardiano di un gregge che per un secondo sia tentato di liberare tutte le povere bestie che gli sono state affidate. Così se la racconta, perché capisce quanto pericoloso possa essere per lui spalancare il recinto in cui ha rinchiuso la sua vita. Capisce per esempio che quanto è sopportabile per sé diventerebbe insopportabile se Elena entrasse davvero nella sua vita.
Così non risponde al messaggio che lei le ha scritto: “come un’arancia senza la buccia”... lo legge e lo rilegge, non lo cancella.

La mattina dopo alle 7,30 è al cantiere. Il capo cantiere gli va incontro, gli mette in mano una busta. Abbassa la testa: “L’ingegnere ha detto che non c’è più bisogno di te, ma cosa è successo?”, chiede. Raimondo si guarda attorno, in cantiere vede qualche faccia nuova. Sono facce di un altro mondo: “C’è sempre qualcuno più povero di noi da qualche parte”, sussurra. L’altro lo osserva: “È meglio se non fai casino, magari tra qualche giorno gli passa e ti riprende”. “E secondo te io sto qui ad aspettare che gli passi?”, chiede. “Non ti riconosco più”, dice quell’altro, “sembravi un ragazzo a posto”.
“A posto… Cioè?”, domanda. L’altro non sa cosa rispondere.
“Cos’è a posto per voi?”, incalza.
“Non esagerare”, dice il capo cantiere con un accenno di aggressività: “Se tu non hai bisogno di lavorare, qui c’è gente che ha famiglia. Tu lo sai che ci sono problemi di consegna e che ogni giorno di ritardo sono soldi che si perdono…
Il mondo gira in questo modo: prendere o lasciare”.
“No, no”, s’incaponisce Raimondo, e quasi gli sembra di capire tutto in quello stesso istante. “Voi del mondo non ne sapete nulla, nulla, ribadisce”.

L’altro lo guarda con pena, gli allunga la busta come a dire che i discorsi sono finiti, che le chiacchiere inutili sono finite.
“Vi denuncio tutti”, annuncia. “E che cosa denunci?”, chiede l’altro sfidante: “Prenditi i soldi e levati dai coglioni”.
“I soldi li prendo perché sono miei e sono di meno di quelli che mi dovete. Ma vi denuncio lo stesso”.
“E bravo”, dice l’altro “vai vai, denuncia poi se trovi qualcuno disposto a testimoniare me lo fai sapere”.
“A testimoniare che qui si lavora in nero, senza garanzie, senza contratto, senza assicurazione…”
“E allora?” Chiede l’altro: “Succede qui come dappertutto…”
“No”, fa Raimondo “è che a volte piacerebbe sentirlo dire che a voi dei diritti degli altri non ve ne frega niente…”
“Prenditi i soldi e levati dai coglioni”, sbotta l’altro.
“Hai famiglia anche tu”, insiste Raimondo.
“Ma che cosa vuoi?”, chiede il capo cantiere, la voce un poco gli si incrina.

Su quella crepa minuscola Raimondo appende la sua risposta:
“Voglio che lo dici: Sono un padre di famiglia che se ne fotte dei figli altrui”.
L’altro fa cenno di no. È rimasto lì con la mano appesa al nulla mentre porge la buona uscita in nero a Raimondo.
“Le cose vanno così”, spiega, “cosa ti credi che non vedo quello che succede? Cosa ti credi che non mi piacerebbe vivere in un mondo dove si danno i giusti stipendi, dove si pagano i contributi, dove si garantiscono i giusti diritti?”
“E allora perché accetti che non accada?”
“L’hai detto tu: devo pensare alla mia famiglia. È solo per questo”.
“Per questo cosa?”, chiede Raimondo afferrando, finalmente, la busta.
“Per questo che lavoro con questi banditi. E se vuoi che te la dica tutta della tua denuncia se ne fregano, perché qui anche i sindacalisti hanno dei figli”.
“E io che sono uno di quei figli?”. Ora la testardaggine di Raimondo sembra persino tenera.
Il capo cantiere scuote le spalle come se volesse levarsi di dosso un brivido di freddo.

Lasciando il cantiere Raimondo non si sente come quando, alle superiori, veniva sbattuto fuori dalla classe, ma come quando la classe la lasciava di testa sua, per dimostrare che non era uno facile da ammansire. Ha la sua piccola liquidazione in tasca. Non vuole tornare a casa, non vuole spiegare a sua madre per quale motivo non è al cantiere. Così sale sulla prima corriera per la costa, ad aspettare Elena quando avrà finito di riordinare stanze e di fare la stagione per i turisti danarosi. Lei lo vede poco fuori dall’albergo. Lo raggiunge. Lo accarezza: “Andiamo a casa gli dice”. Lui la segue: “Mi hanno cacciato dal cantiere”, le rivela. “Un lavoro che non c’era non si può perdere”, constata lei. “Sì”, pensa lui, senza nemmeno il bisogno di dirlo veramente.

Pensa anche al fatto che la vita vera gli si spalanca davanti ed è bellissima o bruttissima a seconda che abbia le fattezze di Elena o quelle della madre a cui dovrà spiegare ogni cosa. Che già constata quanto faccia la sua differenza sentirsi ascoltato o meno. A lei, ad Elena dice ogni cosa: che ha avuto una discussione con l’ingegnere e anche col capo cantiere e le dice che ha registrato tutto col cellulare, e le dice che appena avranno finito di fare l’amore quando si sentiranno talmente stanchi da non poter nemmeno ragionare, lui si recherà a casa sua e dirà alla madre cose che non le ha mai detto davvero. Le dirà che è triste vederla così definitivamente arresa. Ma che le vuol bene lo stesso perché capisce che si è ridotta in quel modo per amore suo. Poi le dirà che nessuna dimostrazione d’amore sarebbe più grande per lui che vederla ritornare la donna senza paura che, magari senza volerlo, l’ha fatto esattamente com’è: testardo, irragionevole, inadeguato, impermeabile a tutto lo scetticismo diffuso che lo circonda. Questo le dirà, e le dirà che non è più disposto ad accettare. Poi indosserà il suo costume: ghette, zippone, berritta per andare all’Ispettorato del lavoro a far sentire tutto ciò che ha registrato.
A Raimondo scappa da ridere, dovrebbe sentirsi infelice e invece no.
Tra le braccia di Elena è veramente nudo. Senza buccia.

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