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lunedì 31 ottobre 2011

A mezzo secolo dalla morte, le lezioni del Presidente nel ricordo del nipote ambasciatore: la base di partenza per quasi tutto era la lettura

La Stampa Cultura

 Dieci cose che mi ha insegnato mio nonno Luigi Einaudi

Luigi Einaudi nel 1952 nella sua tenuta di San Giacomo, a Dogliani, attorniato da otto nipoto ai quali legge le Georgiche di Virgilio

A mezzo secolo dalla morte, le lezioni del Presidente nel ricordo del nipote ambasciatore: la base di partenza per quasi tutto era la lettura

LUIGI ROBERTO EINAUDI
Gli insegnamenti che mi ha lasciato mio nonno, Luigi Einaudi, si possono riassumere in dieci lezioni. Supplirò ai difetti della memoria citando brani di lettere che mi scrisse quando era Presidente della Repubblica e io facevo il liceo e l'universita negli Stati Uniti. Lui aveva fra i 78 e gli 81 anni, mentre io avevo fra i 16 e i 19 anni.

Prima di parlare di lezioni, però, bisogna dire che per Luigi Einaudi la base di partenza per quasi tutto era la lettura. Poche sono le sue foto nelle quali non ha qualcosa de leggere in mano. Dall'età di dieci anni io divoravo le avventure di Emilio Salgari. Così ho anche letto Jules Verne, prima in italiano e, solo dopo, in francese. Ma di letture più serie poche. Il nonno non era del tutto contrario: «Quella tua era l'età in cui io divoravo libri; pur di leggere, senza discernimento talvolta, ma avendo cura si trattasse per lo più di scrittori grossi, quelli che dissero qualcosa. Nacque un gran disordine, ma qualcosa rimane sempre. Non consiglio il disordine, ma importa fare escursioni extravaganti fuor del campo assegnato, è utile ed eccita la mente in un'età in cui questa è pronta a ricevere. Regola: non leggere libri di gente mediocre o di pura attualità».

Nel 1952 avevo compiuto sedici anni e il nonno mi permise di dormire a San Giacomo fra gli scaffali della biblioteca, un ricordo che mi rende felice ancora oggi. Quell'estate mi fece leggere Virgilio con lui in latino, spiegando che la lettura era per imparare un'altra lingua, ma anche per meditare sulla sostanza. Quel Natale mi mandò il Dizionario moderno del Panzini con la dedica: «A Luigino, perché nello scrivere italiano abbia una guida alle parole moderne che è bene usare il meno possibile».

Nel 1954 abbiamo letto assieme L'Ancien Régime et la Révolution di Tocqueville in francese. Poi mi fece leggere i commentari dell'inglese Arthur Young che aveva viaggiato in Francia negli anni prima della rivoluzione registrando le condizioni economiche e sociali.

Nel 1945, al ritorno dall'esilio svizzero per assumere la carica di governatore della Banca d'Italia Luigi Einaudi aveva 71 anni. Mio padre diceva che il nonno «era affamato» di rimettersi al lavoro. A quante persone è dato avere l'opportunità di mettere in pratica le conoscenze e le teorie di tutta una vita?

Ma la situazione era tutt'altro che facile. La guerra aveva peggiorato le condizioni economiche, e creato un vuoto istituzionale. E nel 1948 ricevette il massimo incarico dello Stato, il primo a essere scelto dalle Camere come Presidente della nuova Repubblica italiana. Non era una carica che aveva cercato. Anzi, avendo votato per la monarchia nel referendum del 1946, si potrebbe dire che era una carica contro la quale aveva votato. E adesso era lui a rimpiazzare il Re.

Il protocollo repubblicano era tutto da inventare. Non c'erano precedenti. Il personale del Quirinale era composto in molti casi da chi aveva servito il Re. Ricordo persino un autista che aveva fatto l'autista per Mussolini. E poi l'Italia era divisa. La retorica si riferiva alle bellezze del trionfo della democrazia e della Repubblica. Ma la realtà era che c'erano vincitori e vinti. E, come al solito in Italia, molte correnti. In Inghilterra la monarchia dava un senso di unità nazionale al di sopra delle liti politiche. In Italia la monarchia era stata bocciata, ma la Repubblica era da costruire. Il nonno temeva che sarebbero sorti momenti di crisi che avrebbero potuto precipitare senza una figura di riferimento nazionale al di sopra delle parti.

La prima e forse la più importante lezione imparata in questo ambiente era che «bisogna dare il buon esempio» . Sottolineo il buon esempio, perché chi occupa la massima carica dello Stato non può soltanto dare un buon esempio. Anzi, ha la responsabilità di individuare le prassi migliori da trasmettere ai concittadini e ai propri successori. Dunque deve sempre dare il buon esempio. E darlo in tutto, anche nei dettagli meno importanti. Questo abito mentale diventò una parte essenziale della nostra vita quotidiana. Non presumere mai.

La seconda lezione, «fare le cose bene anche se non sarai ringraziato» , era sempre stata una delle sue regole. Il primo sistema italiano di previdenza sociale, la Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia degli operai (Cnas), era un'assicurazione volontaria. Ben prima della guerra del 1914, il nonno pagò il suo contributo come datore di lavoro, aggiungendo anche il contributo che spettava alla donna di casa, Maria Granda. Non fu mai ringraziato; il commento lapidario della domestica riferitomi anni dopo fu infatti: «Se lo fa il professore, vuol dire che qualcosa ci guadagna».

La terza lezione è stata capire che «per trovare una soluzione bisogna accettare che la politica può talvolta interferire con una logica tecnica - e viceversa» . Una lezione maturata nelle discussioni di Trieste e delle frontiere dell'Italia con la Francia. I conflitti di territorio non si possono risolvere come fecero le potenze coloniali in Africa, tracciando linee geometriche senza riguardo per gli abitanti e le culture o persino la geografia. I maggiori esiti della mia vita diplomatica sono tutti dovuti a questa lezione.

Una quarta lezione è stata: «Presta attenzione alla tua base» . In sette anni come Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi non ha mai lasciato l'Italia, nemmeno per andare in un vicino paese europeo. Aveva viaggiato molto prima di assumere la Presidenza della Repubblica e fatto quasi due anni di esilio in Svizzera. Quando gli chiesi perché non viaggiò mai all'estero da Presidente, mi disse semplicemente che il suo dovere era di essere in Italia.

Una quinta ed essenziale lezione era «non scordare mai l'uomo comune» . L'intellettuale e l'uomo politico non hanno diritto di decidere cosa va bene per il contadino o l'operaio. «L'unica persona che sa se le scarpe gli vanno è chi le porta». Questa frase tagliente fece parte di molte nostre discussioni. Riflette una profondissima convinzione del valore individuale della persona e il rispetto che gli è dovuto al di là della condizione sociale, e senza settarismi politici. Per Luigi Einaudi l'Italia non poteva essere concepita solo in base a classi sociali, etichette politiche o titoli formali.

La lezione numero sei: «Anche noi sappiamo contare» . Un giorno a cena in famiglia al Quirinale Luigi Einaudi era soddisfattissimo. Quel giorno aveva visto Barbara Ward, scrittrice ed economista inglese diventata più tardi Lady Jackson. La Ward da poco aveva scritto un articolo che conteneva qualche calcolo sbagliato. Einaudi le aveva spiegato l'errore, la Ward lo aveva accettato. Dopo averci raccontato lo scambio disse, sereno, «anche noi sappiamo contare».

La lezione numero sette: «Le cose non sono sempre come appaiono» . Era comune durante gli anni del fascismo vedere un ritratto di Mussolini in case di contadini. Molte volte era appeso vicino alla porta di casa. Quando passavano le autorità fasciste tutto sembrava in ordine. Ma il contadino aveva messo il ritratto vicino alla porta così che, vedendolo mentre stava varcando la soglia di casa, poteva sputargli contro senza che lo sputo finisse in casa. Fra le note per il testamento, riferendosi all'azienda agricola: «Se c'è un reddito un anno, non credere che si ripeterà l'anno venturo».

Una simile ma ottava lezione sarebbe: «Evita le prime impressioni» . Un giorno gli ho portato un libro appena pubblicato che avevo letto nel corso dei miei studi a Harvard ma che lui non aveva. Non mi ricordo se glielo avevo offerto come regalo o come prova di un argomento. Credevo di avere capito che per lui i libri fossero la massima espressione della civiltà e che, circondato dai libri come era, lo avrebbe apprezzato. Lo rifiutò. Come mai? chiesi sconcertato. «Prima di comperare un libro bisogna sapere se vale o no. Io, se posso, non compro mai un libro se non 40 anni dopo la sua pubblicazione. Solo allora si saprà se vale qualcosa o no». Immaginate la mia reazione. Non avevo ancora 20 anni!

Molto difficile da mettere in pratica la nona lezione: «Non dire mai oggi qualcosa della quale ti vergognerai domani o fra dieci anni o anche vent'anni dopo d'averlo detto» . Non so come o dove avesse imparato questa lezione. Forse da giornalista. Nel 1960 mi scrisse una massima un po' diversa: «Se si scrive qualcosa, lasciarlo stare a riposo per 15 giorni o un mese, e poi rileggerlo». In ogni modo cercare di parlare e scrivere sempre sub specie aeternitatis è molto difficile. Se nella mia vita diplomatica mi sono ostinato nel cercare di seguire questa regola essenziale, lo devo al nonno.

La decima lezione è una lezione di limiti . Da Caprarola, il 23 agosto 1953, il nonno rispose così a una serie di esiti miei dei quali mi ero molto vantato con lui: «Il desiderare sempre il meglio è una delle ragioni di vivere. [...] Ed adesso ti dico di una mia fissazione. La gioia per i risultati ottenuti deve essere sempre accompagnata da una tacita riserva mentale. Quel che so, che ho imparato, è niente in confronto a quel che non so. [...]. Quel che occorre è imparare il metodo di distinguere il vero dal meno vero; il metodo di ragionare. Ed a questo fine servono in primissimo luogo la matematica, per porre bene i problemi, ed il latino per esprimersi bene. Con il quale latino - for ever - ti bacia ed abbraccia il tuo nonno».

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