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NON STO TANTO MALE

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lunedì 31 ottobre 2011

Presentazione del libro 'Ricatto allo Stato' - Milano, 3 novembre 2011

Presentazione del libro 'Ricatto allo Stato' - Milano, 3 novembre 2011



In Primo Piano - Documenti
Scritto da Redazione 19luglio1992.com   
Lunedì 24 Ottobre 2011 19:02
Giovedì 3 novembre 2011 avrà luogo a Milano la presentazione del libro di Sebastiano Ardita 'Ricatto allo Stato'. L'evento avrà luogo alle ore 17.00 presso il cinema Anteo (via Milazzo 9). Interverranno Sebastiano Ardita (magistrato presso il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria), Giovanna Maggiani Chelli (presidente dell'Associazione tra i familiari delle Vittime della strage di via dei Georgofili), Salvatore Borsellino (fondatore del Movimento Agende Rosse) ed Antonio Ingroia (magistrato presso la Procura distrettuale antimafia di Palermo). Modererà l'incontro Gianni Barbacetto, scrittore e giornalista.
Invitiamo tutti i cittadini a partecipare numerosi e proponiamo di seguito ai lettori del sito la recensione del libro curata da Fabio Repici.


Ricatto allo Stato

Raramente negli scaffali delle librerie dedicati alla saggistica capita di trovare qualche volume davvero essenziale. Sicuramente un libro essenziale è il recentissimo “Ricatto allo Stato”, scritto da Sebastiano Ardita e pubblicato da Sperling & Kupfer. Ardita, magistrato catanese, è, dal 2002, uno dei più importanti dirigenti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), a capo del delicatissimo Ufficio detenuti e trattamento.
Oltre a essere poggiato su una prosa nitida e su un’apprezzabile struttura narrativa (che, circolarmente, muove dall’ingresso in carcere di Bernardo Provenzano all’esito dell’ultraquarantennale latitanza e dal biennio 1992/94 – con l’introduzione del 41 bis per i mafiosi, le stragi mafiose in Sicilia e poi nel continente e l’anomala gestione del carcere duro nel passaggio fra la Prima e la cosiddetta Seconda Repubblica – per poi proseguire con l’esperienza personale di Ardita al Dap e, infine, chiudere con un capitolo il cui titolo è proprio “La trattativa”), il libro di Ardita si fa apprezzare particolarmente perché enuclea a ogni pagina fatti, dati documentali e riferimenti certi, fuori da ogni dogmatismo. In poche parole, con questo libro il magistrato catanese espelle dal dibattito pubblico leggende metropolitane, falsità e mistificazioni che hanno spesso ammorbato l’informazione sulla realtà carceraria e sulle più che probabili deviazioni istituzionali che nel secondo semestre del 1993 accompagnarono il rapporto fra Cosa Nostra e il 41bis.

A proposito di informazione tossica, segnalo le pagine dedicate ai primi mesi di carcerazione del boss Provenzano, durante i quali quasi quotidianamente vennero divulgate menzogne a mezzo stampa per tentare di condizionare la destinazione carceraria del capomafia corleonese (allo scopo di consentirgli un contatto col boss Piddu Madonia di Caltanissetta). Il tutto in un clima torbido che induce Ardita, pur con la prudenza che tutti gli riconoscono, a scrivere: “Qualcuno evidentemente ci stava monitorando o aveva infiltrato degli informatori”.

Magari meno appassionanti rispetto ai grandi misteri della Trattativa e delle derive provenzaniane dello Stato, i capitoli relativi all’operato dell’autore al Dap a partire dal 2002 forniscono però una testimonianza diretta sull’evoluzione normativa e organizzativa dello strumento del 41bis e anche delle strutture carcerarie ordinarie. In questo caso è mirabile vedere come quello che era stato per anni un eccellente pubblico ministero (Ardita per quasi dieci anni aveva prestato servizio alla Procura di Catania), essendo prima di tutto un fedele servitore dello Stato, ha saputo cogliere l’essenza del suo ruolo al Dap, quello di chi deve garantire il rispetto delle regole e, contemporaneamente (anzi, ancor prima), garantire il rispetto della dignità a ogni singolo detenuto. Ardita lo spiegò a muso duro a Provenzano: “La sua vita adesso è nelle mani della legge, che tutti noi abbiamo l’obbligo di far rispettare. Noi non conosciamo nessuno che abbia un potere che sta al di sopra della legge”. Ma al contempo lo dimostrò nella pratica quotidiana e anche nelle situazioni straordinarie, come in occasione del suo intervento tempestivo in favore dei detenuti ospiti al carcere dell’Aquila, terrorizzati dallo sciame sismico che precedette il disastroso terremoto del 6 aprile 2009.

Il clou del libro, però, nella prospettiva di chi scrive, è la ricostruzione, corredata da puntuali citazioni documentali, di quel che avvenne nel 1993, a cavallo delle stragi di Firenze, Milano e Roma e prima della programmata strage allo Stadio Olimpico: in particolare di quel che avvenne al Dap nel 1993. Si scoprono circostanze incredibilmente inedite a distanza di diciotto anni dai fatti: circostanze che smentiscono molte falsità ammannite dagli organi di informazione al servizio del potere (del potere deviato, ça va sans dire) e che sottraggono al silenzio alcuni fatti che si voleva rimanessero ignoti ai cittadini di questo paese.

Punto primo: sotto la sua guida del Dap, Niccolò “Amato non revocò neanche un provvedimento di 41 bis. Sta di fatto che … il vertice del DAP, insieme alla sua squadra, venne avvicendato proprio a ridosso della decisione sul mantenimento del regime speciale di detenzione”. Commenta Ardita: “Sarebbe importante perciò conoscere i tempi e le modalità con cui Amato venne sollevato dall’incarico, i colloqui che ebbe, le ragioni ufficiali che vennero addotte e quelle ufficiose che portarono alla sua rimozione, lasciando campo libero a una nuova gestione. Tutti profili che non saranno sfuggiti ai magistrati che conducono le indagini”.
Punto secondo: ad Amato successero, ai primi di giugno 1993, Adalberto Capriotti e il suo vice Francesco Di Maggio, già pm a Milano e con nessuna esperienza in campo penitenziario. Di Maggio divenne il dominus del Dap, seppure la sua nomina a Vicedirettore generale era impossibile, perché sprovvisto dell’anzianità necessaria. Ma poiché un destino ineluttabile sembra volesse assegnare a Di Maggio, magistrato barcellonese di nascita e milanese d’adozione, il controllo del Dap venne emesso un decreto del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, con nomina speciale che parificò Di Maggio a un dirigente generale dello Stato. Sì, proprio un decreto ad personam. Cosicché scopriamo che le norme ad personam, se vengono emesse a beneficio di Francesco Di Maggio o di Adriano Sofri, vengono accolte con plauso bipartisan; quando, invece, sono cucinate per sottrarre Berlusconi alla giustizia, dal centrosinistra, almeno a parole, arrivano le contestazioni. Vien da pensare che nella pulsione illegalitaria i berlusconiani sono più coerenti, mentre altri si ricordano della Costituzione solo a giorni alterni.
Punto terzo: fu proprio sotto la gestione di Francesco Di Maggio che ai primi giorni di novembre 1993, infischiandosene delle preoccupate segnalazioni dei procuratori aggiunti di Palermo Aliquò e Croce, il Dap fece scadere i famosi 334 41bis, a tutto beneficio di importanti esponenti di Cosa Nostra. Commenta Ardita: “Il modo di procedere pragmatico e spedito della nuova gestione del DAP lasciava intendere che dietro quella scelta vi fosse una copertura istituzionale forte … ma probabilmente ispirata da un suggeritore tecnico per una scelta pragmatica di gestione della crisi”. La scelta pragmatica venne fatta dal Dap di Di Maggio sul sangue delle vittime delle stragi. Da quel momento finì lo stragismo mafioso ma si pose anche una pietra tombale sulla verità delle indecenti interlocuzioni fra Stato e Cosa Nostra.

Su quest’ultimo argomento, il libro di Ardita andrebbe letto insieme all’informativa del Gico di Firenze del 3 aprile 1996 su un uomo che pure è stato al centro delle indagini (seppure poi archiviato) sui mandanti esterni delle stragi di Capaci e via D’Amelio, il pregiudicato barcellonese Rosario Cattafi, da molti collaboratori di giustizia indicato come trait d’union fra Cosa Nostra e servizi segreti. In quell’atto investigativo è documentata la vicinanza fra Francesco Di Maggio e Rosario Cattafi. Ma non c’è solo questo. Dal libro di Ardita apprendiamo che in quel tornante della storia d’Italia andarono via dal Dap numerosi magistrati (per incompatibilità con la gestione Di Maggio o per altre ragioni) e ne rimasero in servizio solo tre, il più importante dei quali, a capo dell’ufficio detenuti, fu il barcellonese Filippo Bucalo. Il Gico di Firenze scoprì che nell’estate 1993 Rosario Cattafi ebbe costanti contatti telefonici con Filippo Bucalo e col fratello del dirigente del Dap. Cattafi l’8 ottobre 1993 fu arrestato su richiesta della Procura di Firenze per le vicende dell’autoparco della mafia milanese. Così oggi sappiamo che quando il Dap di Di Maggio e di Bucalo fece decadere il 41bis per 334 mafiosi siciliani, all’interno delle carceri, da detenuto, c’era un amico di Di Maggio e Bucalo, che ben poteva recepire le reazioni dei capi di Cosa Nostra in quel momento detenuti.
Prendendo in prestito le parole di Ardita, sono “tutti profili che non saranno sfuggiti ai magistrati che conducono le indagini”.


Fabio Repici (25 settembre 2011)

da http://www.19luglio1992.org/

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